Un paradosso percorre le nostre società liberali: con forza viene stigmatizzata ogni forma di dipendenza, avvertita come minaccia alla libertà del soggetto, e nello stesso tempo molti tipi di dipendenza, e non solo nella forma patologica dell'addiction verso sostanze, esercitano oggi come non mai una potente seduzione. E questa contraddizione non risolve, ma anzi cristallizza un problema che mette a rischio delle vite. Sempre attenta alle sfaccettature della condizione umana, Nathalie Sarthou-Lajus propone di superare il dualismo avidità/astinenza, dissolutezza/ascesi, per cercare un modo nuovo di comprendere e affrontare le nostre dipendenze liberandoci dall'alternativa troppo semplicistica tra libertà e alienazione. Del resto, già Platone ci aveva fornito la preziosa nozione di pharmakon, veleno e medicina insieme: un'ambivalenza su cui riflettere per capire la complessità della dipendenza senza demonizzare chi cade nella sua vertigine. La dipendenza è un debito contratto nei confronti di un 'prodotto', sia esso una droga, un'attività, una persona. Ma, a ben pensarci, il debito caratterizza tutta la comunità umana, e non solo in senso negativo: è ciò che crea il legame, anche simbolico. Nasciamo e subito dipendiamo da altri, e nel gioco del vissuto di questa dipendenza si forma e si dispiega la nostra identità. Accanto all'angoscia del proprio possibile annullamento, sperimentiamo anche un benefico allargamento dell'io. L'ideale stoico dell'indipendenza totale è estraneo da subito alla condizione umana, al bisogno che abbiamo gli uni degli altri. Può allora esistere, dice Sarthou-Lajus, una 'dipendenza felice', che mantiene il legame con il mondo e ci permette di vivere con gli altri e per gli altri, dalla cui esperienza possiamo peraltro partire per un percorso di vicinanza e di comprensione dell'addiction. Un'altra vertigine, opposta a quella dell'autodistruzione, da assaporare nella poesia come negli affetti, nella cura reciproca come nella fede.