Come un grande drammaturgo, Plutarco rievoca, sullo sfondo delle "Vite di Nicia e di Crasso", i personaggi principali che in quei tempi vissero ad Atene e a Roma: Pericle, Cleone e Alcibiade, Silla, Pompeo e Cesare. Davanti ad essi, Nicia e Crasso sono personaggi minori: entrambi prudenti, amabili e moderati. Nicia tende a nascondersi, mentre alla fine Crasso viene travolto dall'avidità e dall'euforia. Ma nessuno dei due possiede l'energia, la determinazione, la forza che permettono a un uomo di interpretare il proprio tempo e di simboleggiare un periodo storico.
In queste due Vite, Plutarco rivela il dono capitale del drammaturgo: l'amore per il disastro. La follia collettiva che sconvolge Atene e la conduce alla guerra del Peloponneso, il massacro in Sicilia della spedizione guidata da Nicia, il crollo della civiltà ateniese. I segni infausti che accompagnano la spedizione romana in Oriente, il fascino e le insidie del mondo iranico, la sinistra e scurrile mascherata alla corte dei Parti, dove un doppio in vesti femminili impersona Crasso, compaiono le cortigiane, vengono recitate le "Baccanti" di Euripide, mentre la testa del generale romano viene gettata nella sala del banchetto...
Leggendo le due Vite qualcuno si chiederà cosa Tucidide e Shakespeare avrebbero pensato di pagine così straordinarie, capaci di rivaleggiare con la grandiosa obiettività dell'uno e la fantasia visionaria dell'altro.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Grasso
Scolî
COMMENTO
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Crasso
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La "Vita di Nicia". In questa biografia è a prima vista percepibile un tratto che la distingue, insieme con poche altre, nel corpus cui appartiene: la ricostruzione della personalità del protagonista non ha le evidenti contraddizioni che, per esempio, si riscontrano nella "Vita di Cìmone". Al primo capitolo, dedicato alla rassegna dei principi metodologici, segue la descrizione del carattere del protagonista, che fluisce ininterrottamente, sotto forma di notazioni quasi mai marginali, anche in quella parte della Vita dedicata al racconto delle sue gesta. In via preliminare va detto che il ritratto di Nicia risulta nient'affatto elogiativo, perché il suo comportamento appare sempre permeato di viltà, di cautela che sconfina nel timore e di superstizione. Plutarco sostiene che Nicia era per natura privo di coraggio e pessimista; in guerra la sua pusillanimità veniva dissimulata dalla fortuna che gli fu propizia in quasi tutte le campagne militari. Nel 425, con un comportamento simile a quello che Dante avrebbe attribuito a Celestino V, Nicia "fece per viltade il gran rifiuto", cedendo all'avversario Cleone il comando dell'impresa di Pilo. E ciò - commenta Plutarco - apparve una vergognosa manifestazione di debolezza, più grave ancora che gettare lo scudo o la clamide in battaglia.
Nicia era costantemente in preda alla paura: per timore dei delatori non pranzava con alcuno dei concittadini, non osava conversare con nessuno, non trascorreva mai le giornate in compagnia di altri; se non aveva affari pubblici da sbrigare, era assai difficile avvicinarlo, perché se ne stava chiuso e rintanato in casa. Non attribuiva mai i suoi successi a prudenza, ad abilità o a virtù personali, bensì alla sorte, e si trincerava dietro l'intervento divino per timore dell'invidia suscitata inevitabilmente dalla fama. Nel 415, non essendo riuscito a dissuadere gli Ateniesi dall'intraprendere la spedizione in Sicilia e posto contro il suo volere a capo dell'armata, Nicia mostrò un'esitazione e un timore sconfinati. Come un fanciullo - nota Plutarco - si volgeva a guardare indietro dall'alto della nave, rimuginando sull'insuccesso dei discorsi da lui pronunziati per evitare la guerra e finendo così con lo scoraggiare i colleghi e spegnere l'ardore dell'impresa. Non c'è da stupirsi che il suo modo di agire offrisse il destro al nemico Ermocrate di esclamare che Nicia era uno stratego veramente ridicolo, in quanto rivolgeva tutti gli sforzi a evitare di combattere, quasi non fosse venuto in Sicilia per questo scopo. Infatti, a furia di calcoli, esitazioni e cautele, finiva con lo sciupare sempre le occasioni propizie. Era facile allo sconforto: battuto dai Siracusani guidati da Gilippo, si lasciò prendere dallo scoraggiamento. Scrisse agli Ateniesi d'inviare in Sicilia un'altra armata oppure di ritirare quella che già c'era; in ogni modo li pregava di esonerarlo dal comando a causa delle cattive condizioni di salute: soffriva terribilmente di "nefrite".
Sulle orme di Tucidide, Plutarco iscrive Nicia nella schiera di quanti temono fortemente gli dèi e sono perciò troppo inclini alle pratiche divinatorie. Quando il 27 agosto 413 si verificò un'eclissi totale di luna proprio mentre gli Ateniesi erano in procinto di lasciare la Sicilia, egli, per ignoranza o superstizione atterrito da quel fenomeno, convinse i suoi uomini a restare per la durata di un'altra lunazione. Così, trascorrendo le giornate a fare sacrifici e a consultare oracoli, rinunziò a una fuga ancora possibile, condannando sé stesso e l'esercito tutto a una sicura sconfitta. E, con una punta di cinismo, Plutarco sostiene altrove che Nicia avrebbe fatto meglio a togliersi la vita, anziché lasciarsi accerchiare per timore dell'ombra prodotta da un'eclissi lunare.
Dotato di straordinari beni di fortuna, non era alieno dal ricorrere alla corruzione: nel 421, conclusa la pace fra Atene e Sparta, con una somma di denaro comprò segretamente il risultato del sorteggio, sicché toccò ai Lacedemoni restituire per primi territori, città conquistate e prigionieri. Ciò che maggiormente viene sottolineato nel corso della Vita è la debolezza di carattere di Nicia: per non combattere contro gli Spartani, consegnò all'inesperienza di Cleone navi, soldati, armi e un comando militare che richiedeva il massimo della competenza, compromettendo non solo il proprio prestigio, ma anche la sicurezza della patria. Infine, nonostante le commoventi parole poste sulla sua bocca, Plutarco sottolinea che, a differenza di Crasso, Nicia si diede in balia dei nemici con il miraggio di una possibile salvezza, procurandosi invece la più ingloriosa delle morti. E quasi a commento, Pausania riferisce che lo stratego ateniese non ebbe il nome inciso sulla stele dei caduti per essersi arreso. Come già Aristofane, Plutarco biasima l'abituale tendenza di Nicia a temporeggiare; ne disapprova la viltà e la debolezza; ne riprova la politica e denunzia il fatto che egli, privo delle qualità di Pericle e della ciarlataneria con cui Cleone compiaceva e insieme controllava il demo, era costretto a cattivarselo per mezzo di spettacoli teatrali, ginnici e altre munificenze.
Qua e là Plutarco è indotto a riconoscere che a Nicia non mancavano doti e qualità, ma lo fa sempre con riserva. Se ne apprezza la moderazione, l'umanità, l'esperienza e l'abilità; se lo presenta come un individuo onesto e saggio che non si lasciò esaltare da speranze nè insuperbire dall'importanza del comando; se ne loda l'astuzia dei piani militari e l'abilità come stratego; se ne ammira l'energia, l'efficacia e la rapidità di movimenti;