Per Plutarco, il mito è qualcosa di infinitamente complesso : i suoi cultori dovrebbero indossare le vesti variopinte di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, di ondeggiante, di contraddittorio. Di una sola cosa Plutarco sembra certissimo: non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o in un semplice fatto naturale, come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Quello che caratterizza ogni mito è la straordinaria ricchezza degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo in termini demoniaci, matematici, alfabetici, naturali, religiosi ; e mentre lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere valori contrastanti, può significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove il " principio di non contraddizione " è caduto.
Le "Vite di Teseo e di Romolo", commentate con grande erudizione e finezza da Carmine Ampolo in questo volume, riguardano eventi che si collocano prima dei fatti storici, nell'oscurità mitica. Come nelle carte geografiche, oltre le terre conosciute, gli antichi geografi disponevano segni per indicare "deserti" o "zone infestate da belve" o "paludi inesplorate" o "ghiaccio scitico", così Plutarco avanza nei territori favolosi che appartenevano di solito ai poeti tragici e ai mitografi. Il suo procedimento è molteplice. Da un lato egli, che venera l'elemento divino puro e incontaminato, non vuole vederlo troppo mescolato all'elemento umano; e dunque nega o razionalizza le leggende mitiche. Ma, d'altro lato, quando è convinto che il sacro si è calato tra noi, ne riconosce con commossa venerazione il passaggio sulla terra. Invece di abbandonarsi alla sua vocazione di grande ritrattista, evita di chiudere la materia mitica in un profilo psicologico. Non c'è un " personaggio " Teseo o un " personaggio " Romolo - come esistono, invece, l'Antonio o il Cesare di altre Vite. Qui Plutarco racconta incarnazioni celesti, descrive con amore istituzioni religiose e riti, tradizioni strane e curiose, oppure, con una specie di brivido, si inoltra nello spessore barbarico, fosco e brigantesco, che avvolge e nasconde i miti greci e romani.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
Scolî
COMMENTO
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Plutarco nel territorio del mito. Nelle pagine iniziali della "Vita di Teseo" (1-2) Plutarco chiarisce i motivi della scelta della coppia Teseo-Romolo, ma giustifica soprattutto la sua decisione di occuparsi dell'età delle origini di Atene e di Roma, un'epoca ai confini della storia. Spiega il suo atteggiamento con un parallelo felice ed efficace con la cartografia: come nelle carte inserite nei libri di storia si mettevano nelle zone marginali indicazioni su terre inesplorate e invivibili, cosi egli, che ha già trattato in altre Vite l'età dei fatti accertabili o verosimili, potrebbe affermare ora che tocca i territori dove abitano poeti e mitografi, terre in cui non esiste certezza storica.
Il campo della storia viene delimitato con chiarezza e distinto dal campo della poesia e del mito, secondo una tendenza ben attestata e diffusa, anche se molto contrastata e spesso ignorata volutamente da parte dell'erudizione antica. Com'è noto, esisteva un'antica discussione sulla legittimità, l'opportunità e la possibilità stessa trattare l'età più antica, l'epoca delle origini di popoli e di città, di cui molti si dilettavano e di cui soprattutto si teneva conto nella vita politica interna e internazionale. In genere la storiografia locale si interessò sempre delle origini; basti pensare agli attidografi (da Ellanico in poi), benché la grande storiografia greca, prima del quarto secolo, avesse seguito vie sostanzialmente diverse: sono note le gravi riserve espresse da Tucidide (I 1,3 e 20,1), che pure aveva saputo scrivere pagine di storia antichissima (la cosiddetta "archeologia" del primo libro e la "archeologia siciliana" del libro sesto).
Un buon esempio della discussione sull'opportunità di scrivere delle origini oppure di storia recente o contemporanea è offerto dal primo libro del de legibus di Cicerone. Qui, discutendo appunto di verità poetica e di verità storica, della storiografia romana in confronto a quella greca, Attico, in polemica con Quinto Cicerone, preferisce nettamente la storia contemporanea al sentir parlare de Remo et Romulo (I 3,8). A loro volta, due storici ben noti a Plutarco, come Dionisio d'Alicarnasso e Tito Livio, pur cosi diversi, sentono entrambi il bisogno di giustificare la propria trattazione delle epoche più antiche. Malgrado le difficoltà e l'ampiezza del lavoro di ricerca, Dionisio d'Alicarnasso risale con decisione a tempi remoti; deve premettere tuttavia una sorta di autodifesa dalle critiche, che gli sarebbero state rivolte per essersi occupato delle oscure origini di Roma, e deve sostenere che i primordi della città potevano essere ricostruiti in modo veritiero e che essi avevano un carattere greco e illustre (I, 4-5; cfr. I 8). Livio invece si diceva sicuro che i lettori avrebbero apprezzato poco la sua trattazione dell'età delle origini, mentre si sarebbero affrettati a leggere la storia più recente (praefatio 4); specificava inoltre come le tradizioni relative all'età che precedette la fondazione di Roma fossero più abbellite da leggende poetiche di quanto fossero documentate: così, da parte sua, non intendeva ne accettarle ne respingerle. Ancora in tempi più vicini a quelli di Plutarco, Flavio Giuseppe nell'introduzione alla Guerra giudaica (5-6) dichiarava la sua preferenza per la storia contemporanea, criticando chi "riscriveva" la storia antica.
L'atteggiamento di Plutarco e le sue spiegazioni sono condizionate - com'è chiaro - da questa antica discussione. Il dilemma, storia antica o storia contemporanea, imponeva una scelta tanto di campo storico quanto di fonti. In tal modo, come nella Vita di Nicia (1,5) Plutarco aveva chiarito che da biografo intendeva solo integrare la grande storiografia con la ricerca di altri elementi trascurati, servendosi di fonti documentarie (iscrizioni votive, decreti)', così affrontando le origini di Atene e Roma spiega come abbia dovuto dare ascolto all'elemento leggendario, ma cercando sempre di razionalizzarlo e di renderlo verosimile. Aveva già espresso il suo scetticismo con forti perplessità a proposito di Licurgo (Lyc. i) e della stessa cronologia di Numa Pompilio, quando aveva riportato il giudizio negativo dello storico romano Clodio sulle genealogie. Non gli restava dunque che seguire il razionalismo della storiografia greca, passato anche a storici e antiquari romani, facendo appello alla comprensione dei lettori, come Livio aveva già fatto (praefatio 7). Per giustificare, ancora una volta, il carattere poco credibile del racconto dell'infanzia di Romolo e Remo (Rom. 8,9) ricorre a un argomento estremo, anch'esso forse una reminiscenza liviana (cfr. praefatio 7): si può credere alle origini divine di Roma se si pensa al grado di potenza che essa ha raggiunto.
Vediamo quali sono le caratteristiche del razionalismo di Plutarco. Come Plutarco abbia considerato il mito e la conoscenza mitica, è problema che esula da questa Introduzione: andrebbe affrontato in un esame globale della sua figura e della grandiosa attività di documentazione e di interpretazione mitologica attestata dai Moralia. Qui, vogliamo soltanto affrontare un problema più limitato: la sua interpretazione dei miti arcaici greci e romani.