La mobilità sociale si afferma in connessione con lo sviluppo del capitalismo industriale e della democrazia politica, principalmente in Europa e nel Nord-America. Nel secondo dopoguerra, dopo "trent'anni gloriosi", essa assume un andamento più lento ed irregolare ma si espande comunque un benessere diffuso, soprattutto nei momenti di crescita dell'economia e della produttività. Resta però ai margini una parte della popolazione, i poveri, che esprimono una cospicua fragilità politica e sociale. Per affrontare questa situazione sono state attivate due prospettive (la prima molto meno attuale della seconda): quella antagonistica, che intendeva modificare il sistema, per una società basata sull'uguaglianza; quella riformistica, che propone miglioramenti graduali, applicando istituti e contenuti di equità. Sorge una domanda: la mobilità sociale svolge un ruolo a favore dell'equità? Non è facile dare una risposta netta perché la mobilità sociale, in concreto, appare come un fenomeno bivalente. Direttamente non svolge quel ruolo, in quanto: accetta la concentrazione della ricchezza (con il correttivo fiscale), aggiunge una nuova quota con uno status economico e sociale medio o elevato, favorisce coloro che hanno maggiori opportunità per la famiglia di origine, sono frequenti ingenti patrimoni ereditati. Diversamente e indirettamente, la mobilità ha effetti e implicazioni che si avvicinano all'equità: l'azione delle persone "mobili" fa spesso crescere la ricchezza complessiva e l'innovazione, il tenore di vita può aumentare anche senza passaggi di mobilità, fa accrescere le risorse per politiche sociali dello Stato e di altri enti pubblici (Welfare e sanità), asseconda l'aspirazione diffusa di vivere meglio (tempo libero), consente correttivi collettivi (sindacato). Inoltre, in merito all'elemento fondamentale delle opportunità, dopo e con la famiglia di origine, la mobilità si afferma con il titolo di studio più apprezzato e più impegnativo per i giovani e per le attività lavorative successive.