Un Mozart assai meno apollineo di come viene solitamente dipinto, un Mendelssohn tragico e moderno e un Verdi anziano, saturo di vitalità e contraddizioni; una lettera al «cavaliere Gluck», l’intervista che Brahms decise di rilasciare in esclusiva ai posteri e le feroci critiche di Hindemith e Strawinsky allo «spaventoso gigante» Beethoven: sono solo alcune delle sorprese che il nuovo breviario musicale di Mario Bortolotto ci riserva. Da Schubert a Mahler, da Rossini a Wagner, Čajkovskij, Debussy, nessuno dei grandi maestri manca all’appello, e tuttavia c’è spazio anche per autori e temi meno perlustrati: Cherubini, Auber, Schmidt, l’operetta e i cori alpini già cari a Benedetti Michelangeli, un inedito Leopardi teorico musicale e il colorito epistolario di Berlioz... Ma la dimora elettiva di Bortolotto è senz’altro il teatro, sicché a più riprese lo vediamo sondare, con sollecitudine amorosa e insieme severa, lo stato di salute dell’opera – «questo manufatto che tiene un poco del cialtronesco e un poco del magico». Peregrinando dall’inarrivabile Staatsoper viennese ai palchi parigini e da San Pietroburgo al Colón di Buenos Aires, fino a quei «piccoli teatri esigenti» che soli, in Italia, resistono alla desolante «riduzione del cosiddetto repertorio», Bortolotto esamina cantanti e direttori, trafigge qua e là le «infelici trovate» e la «massiccia ignoranza» di certi registi, eppure è sempre pronto a lasciarsi incantare dal miracolo di una rappresentazione perfetta. Scortati attraverso un labirinto di vicende artistiche, letterarie e musicali da una guida nonchalante ma sospettabile di onniscienza, comprendiamo, insomma, come la musica che inspiegabilmente ci ostiniamo a chiamare classica, lungi dall’essere la superflua ‘colonna sonora’ della vita culturale occidentale, ne sia parte irrinunciabile e fondante.