È una poesia di pensiero, quella di Giancarlo Pontiggia, alimentata peraltro, sempre, da un'immaginazione fervida eppure controllata, frutto di una sapienza felicemente in equilibrio con un estro inquieto, nel corpo di una scrittura che è testimonianza di un esercizio della mente, di un percorso che passo dopo passo viene a tessere i momenti di un'avventura dell'esistere. E dunque di una vicenda, quanto mai articolata e insistita tra lo «stridìo rigoglioso delle cose» e «l'unghia del tempo». Un tempo «che non consola», nella sua «linea infinita», quella che ci precede e seguirà, quando il nostro ansioso esserci cadrà, come è suo destino, nel vuoto. Pontiggia osserva dunque «il moto delle cose», «la teoria semplice delle cose» che si producono e avvengono sotto un «firmamento algido», nel misterioso ordine della totalità che si versa nell'uno. Ma c'è una vivissima emozione nel suo sentire e osservare il mondo, un'emozione che si trasmette al lettore e che increspa l'attenta tessitura di una poesia che sa muoversi anche in azzurri paesaggi, tra il nulla e la luce calda e breve del vivere, magari in cerca di un misterioso senso dell'origine. Pontiggia passa dalla breve strofa concisa e quasi epigrammatica, al frammento scolpito, fino al respiro più ampio del poemetto, a sua volta condotto su misure essenziali, sobrie, asciutte. La sua è una pronuncia impeccabile e limpida, classica, che talvolta si apre in lievi volute sonore, in giochi fonici o in eleganti armonie sottili, come sottile e profonda è la sua perlustrazione poetica dell'esserci e del mondo.