Al centro dell'opera troviamo una profonda critica alla politica di dominio, alla ragion di Stato, a una certa idea di realismo, tutte dettate dalla "doppia morale". Tutte quelle situazioni in cui un comportamento, ritenuto disdicevole nel contesto della vita privata, familiare e civile, assume immediatamente un'aura di legittimità e di impunità non appena venga accostato ad uno Stato. La realtà, denuncia Ropke, è che comunque lo si chiami, rimane un atto che «emana lo stesso acuto aroma del machiavellismo». La logica della doppia morale che giustifica la "dispensa" accordata al politico, in nome della ragion di Stato, appare la quintessenza della politica intesa come ragione della forza bruta, del potere senza controllo, così distante dall'ideale di giustizia al quale ci si approssima per tentativi ed errori, moltiplicando i poteri, contrapponendoli ed equilibrando le forze in campo. Da questo punto di vista, Ropke giunge a soluzioni istituzionali che guardano a forme di federalismo tra comunità politiche liberali e democratiche che cedono, via via, funzioni di sovranità, una volta avviato un processo di disarticolazione della stessa.