Jonathan Safran Foer, da piccolo, trascorreva il sabato e la domenica con sua nonna. Quando arrivava, lei lo sollevava per aria stringendolo in un forte abbraccio, e lo stesso faceva quando andava via. Ma non era solo affetto, il suo: dietro c'era la preoccupazione costante di sapere che il nipote avesse mangiato a sufficienza. La preoccupazione di chi è quasi morto di fame durante la guerra, ma è stato capace di rifiutare della carne di maiale che l'avrebbe tenuto in vita, perché non era cibo kosher, perché "se niente importa, non c'è niente da salvare". Il cibo per lei non è solo cibo, è "terrore, dignità, gratitudine, vendetta, gioia, umiliazione, religione, storia e, ovviamente, amore". Una volta diventato padre, Foer ripensa a questo insegnamento e inizia a interrogarsi su cosa sia la carne, perché nutrire suo figlio non è come nutrire se stesso, è più importante. Questo libro è il frutto di un'indagine durata quasi tre anni che l'ha portato negli allevamenti intensivi, visitati anche nel cuore della notte, che l'ha spinto a raccontare le violenze sugli animali e i venefici trattamenti a base di farmaci che devono subire, a descrivere come vengono uccisi per diventare il nostro cibo quotidiano.