Come si può portare testimonianza di un evento traumatico? È possibile raccontarlo, trasformarlo in un'esperienza comunicabile, trasmissibile e, anche, archiviabile? Può, cioè, la ferita, la lacerazione sia individuale che collettiva provocata da una violenza estrema, farsi memoria culturale? E qual è, infine, lo statuto semiotico del testimone, insieme a quello dell'archivio che contribuisce a modificare? Partendo da una rilettura semiotica della categoria di trauma e della figura della testimonianza, questo libro prova a interrogare i concetti di documento e di archivio come metafora dei processi della memoria culturale a cominciare dal genere che, per eccellenza, si è incaricato di rappresentare il "reale", il cinema documentario. È un libro che prova a confrontare la teoria con esempi concreti di documentari che ricostruiscono, al limite tra finzione intesa come creazione e "realtà", la memoria e la postmemoria della shoah, del conflitto israelo-palestinese, del genocidio cambogiano e della dittatura cilena. E viceversa: un libro che muove dagli esempi per verificare il modo in cui i testi riformulano la teoria, aiutando a ripensarla, e a ripensare così la verità o l'autenticità, la trama e la tenuta dell'archivio di alcuni dei maggiori traumi della nostra contemporaneità.