"Partivano. La gente di queste parti è sempre partita". I ricordi di Toni e Margherita, un anziano pastore e sua moglie, disegnano a tratti scarni ma decisi la loro storia, la storia della gente di Roaschia, nel Piemonte rurale di oltre mezzo secolo fa. Pastori, acciugai, venditori di capelli, uomini perennemente in viaggio: l'etnografo si chiede se abbia senso parlare di "radici", quando esistono "terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre", quando si è costretti a fuggire dal proprio villaggio per scampare alla povertà, per sopravvivere, "rubando l'erba" per le proprie pecore. Eppure continuiamo a pensare che il nomade, il randagio, il bastardo, siano l'eccezione, e che il sedentario sia la norma. Marco Aime, che in quelle terre è nato e cresciuto, stempera il "dato" antropologico e oggettivo in un racconto vivido, "in prima persona", e proprio per questo vitale, nonostante la patina del ricordo e della nostalgia. La vita del pastore, segnata dall'universale diffidenza che i sedentari covano per i migranti di ogni tempo e luogo, diventa l'emblema - e la guida - di tutte le nostre peregrinazioni: "È quello il suo sapere, uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre".
In quel tempo quasi fiabesco che comincia sempre con "una volta", gli abitanti della Chalancho consumavano le sere nelle veglie, spegnendo le fatiche contadine nella narrazione di storie fantastiche. Stretti dentro una stalla, i montanari della piccola borgata della Val Grana esorcizzavano il buio raccontando vicende di masche, le streghe, crudeli femmine vendicatrici o più probabilmente donne che osavano fuggire dalle strette maglie del controllo sociale sfidando la notte, il lato selvatico del tempo. È stato proprio questo, nel 1987, l'argomento della tesi di dottorato di Marco Aime. Ora, a distanza di anni, l'antropologo rende omaggio a un mondo ormai scomparso riproponendo il racconto di quei giorni sulle montagne, e facendo così i conti con un'altra selvatichezza, prepotente come l'ortica che invade i sentieri dell'amata borgata, indifferente come l'asfalto che ne cancella i vecchi tracciati: quella dell'ineluttabilità di certe perdite, dello sprofondare di luoghi e persone in un niente al quale si può solo opporre l'ostinata volontà della memoria, la forza poetica della narrazione. L'assoluta verità del tempo vissuto.
Viaggiare, un mito dei nostri tempi, un modo per entrare in contatto con la realtà e con noi stessi. Ma anche un genere di consumo, un piatto pronto cucinato con emozioni preconfezionate. Questo libro vuole far tabula rasa del consumismo, per pensare e raccontare il viaggio come se fosse un'esperienza sempre nuova, senza pregiudizi, mode, atteggiamenti, bagaglio culturale a carico o chissà quanti altri vizi o abitudini. Perché il viaggio ritorni a essere un'esperienza autentica e unica, è necessario passare attraverso il proprio corpo, ascoltarne i messaggi, decifrarne i cambiamenti, imparare ad esporlo alle sollecitazioni che provengono dall'esterno senza averne paura. E allora riscopriamo i sensi e la corporeità; il piacere di sudare, di rabbrividire, di rimanere abbagliati dal sole o di sentire la sabbia sulla pelle, o lo sgomento di ascoltare l'urlo assordante delle cascate Vittoria. Dalla Scozia al Marocco, dall'Ecuador a Jaipur, Marco Aime, antropologo e viaggiatore, racconta paesaggi, persone, atmosfere, sensazioni, emozioni: parla di sé, e parla di noi, umanità in viaggio.