Lorenzo La Marca, lo svagato detective dei gialli palermitani di Santo Piazzese, si trova ad Erice, ad un workshop del Centro Ettore Majorana. Mentre gironzola qui e là in cerca di riparo dalla inesorabilità del sole e dei colleghi, fa un incontro inatteso: l'amico dei primi anni di Biologia. Rizzitano, si chiamava, ed era sempre stato tanto capace di navigare tra uomini e donne quanto La Marca era impacciato. La rievocazione inevitabile s'impunta su una zona della memoria evidentemente sensibile: l'isola della Spada dei Turchi. E qui cambia la scena. L'ironia e il parlare per allusione e contrasti, tipici della spavalderia autocritica del personaggio, si modula, a poco a poco, al tono del ricordo. La mente torna agli inizi di La Marca, il ritratto del personaggio da giovane. Un pugno di anni di tanto tempo prima, studente alle prime armi, il suo professore, per studiare certi pesci, lo imbarcava su un peschereccio, il "Santa Ninfa". Navigando con gente di mare, gli era piaciuto scoprire cose immaginate sui libri di scienze e di avventura ma, una volta, s'era invaghito di un'isola della costa siciliana, la Spada. Ci vivevano "gli stravaganti" - così gli altri isolani chiamavano la colonia di individui finiti là, ognuno venuto da lontano, ognuno per ragioni diverse, qualcuno a viverci stabilmente, altri a ricercare periodicamente se stessi. Gravitavano intorno a un bar dal nome incongruo, fondato nel dopoguerra da un friulano precipitato in quello scoglio insieme alla moglie bellissima.
Consigli sul regime alimentare da seguire; osservazioni sull’esercizio e sui benefici del sonno, sull’emicrania, sullo sbadiglio, e anche sull’oppressione della mente e sulla malinconia; fluidi e umori; lacrime e problemi femminili; il piacere della donna, i dolori del parto, l’allattamento. Un ricettario naturale che esplora il mondo delle piante, dei frutti, degli animali al fine di trarne rimedi utili per l’uomo.
Il ritratto di Ildegarda di Bingen (1098-1179) finisce per riassumersi nei termini di una contraddizione inevitabile, scrive Angelo Morino nell’introduzione al volume, «da un lato – dalla parte della santa – la trasmettitrice di parola divina celebrata da papi e imperatori e dall’altro – dalla parte della strega – la studiosa di un mondo dalle luci prossime alla notte più scura o, meglio, ritenute tali se ad avventurarvisi era una donna».
Ildegarda fu colta da visioni fin dai primi anni dell’infanzia, ma visse a lungo senza renderle pubbliche e, tanto meno, fissarle per iscritto. Fu solo nel 1136, all’età di trentotto anni, che la religiosa benedettina – diventata badessa del convento di Disibodenberg, sulle rive del Reno – decise di offrirsi allo sguardo dei suoi contemporanei nei tratti di una profetessa in contatto con l’aldilà celeste. Allora, le sue pagine furono sottoposte al giudizio del pontefice Eugenio III e, ottenuto l’avallo papale, cominciarono ben presto a diffondersi nel mondo cristiano. Ildegarda divenne consigliera di uomini fra i più noti e potenti di quegli anni – al punto che Federico Barbarossa la invitò nel suo palazzo di Ingelheim per consultarla – e predicò in chiese e cattedrali di molte città, fra cui Treviri, Magonza e Colonia. Tuttavia, non è Ildegarda visionaria e profetessa quella rimasta a noi più vicina; bensì quell’altra Ildegarda i cui libri, all’epoca, furono sottratti dalla raccolta delle sue opere inviate a Roma per il processo di canonizzazione. Erano libri che – come nel caso illustre di Cause e cure delle infermità – racchiudevano testimonianza di un’attività più terrena: quella di erborista e medica, che, per la sua familiarità col corpo e con gli elementi della natura, aveva ben motivo di suscitare inquietudine, tanto sembrava avvicinarsi a un sapere sotterraneo, confinato fra le tenebre.
A Palermo, su un marciapiede viscido di pioggia, un morto con il cuore trapassato da un colpo di pistola. Dopo l'esordio ne "I delitti di via Medina-Sidonia", un altro caso costringe all'indagine Lorenzo La Marca, biologo per vocazione e detective per necessità (o forse è il contrario?). La Marca si concede tempo. Tempo per dare un'occhiata da vicino, tempo per un aperitivo su una terrazza a un passo dal centro, contemplando distese di tetti e cupole e, in fondo, la linea ferma del mare. La sua inveterata affezione al corto circuito logico, la capacità di comporre le contraddizioni in una superiore unità, gli fornirà la chiave per decifrare una vicenda equivoca e paradossale. Fino all'incredibile soluzione.
Ildegarda fu colta da visioni fin dai primi anni dell'infanzia, ma visse a lungo senza renderle pubbliche e, tanto meno, fissarle per iscritto. Fu solo nel 1136, all'età di trentotto anni, che la religiosa benedettina - diventata badessa del convento di Disibodenberg, sulle rive del Reno - decise di offrirsi allo sguardo dei suoi contemporanei nei tratti di una profetessa in contatto con l'aldilà celeste. Allora, le sue pagine furono sottoposte al giudizio del pontefice Eugenio III e, ottenuto l'avallo papale, cominciarono ben presto a diffondersi nel mondo cristiano. Ildegarda divenne consigliera di uomini fra i più noti e potenti di quegli anni - al punto che Federico Barbarossa la invitò nel suo palazzo di Ingelheim per consultarla - e predicò in chiese e cattedrali di molte città, fra cui Treviri, Magonza e Colonia. Tuttavia, non è Ildegarda visionaria e profetessa quella rimasta a noi più vicina; bensì quell'altra Ildegarda i cui libri, all'epoca, furono sottratti dalla raccolta delle sue opere inviate a Roma per il processo di canonizzazione. Erano libri che - come nel caso illustre di Cause e cure delle infermità - racchiudevano testimonianza di un'attività più terrena: quella di erborista e medica, che, per la sua familiarità col corpo e con gli elementi della natura, aveva ben motivo di suscitare inquietudine, tanto sembrava avvicinarsi a un sapere sotterraneo, confinato fra le tenebre.
"Col promuoversi i buoni costumi si promuove anche la pace comune de' cittadini e per conseguenza il bene di tutto lo stato. Questa è una verità così evidente che si prova da per tutto colla sperienza: quei sudditi che sono ubbidienti a' precètti di Dio sono necessariamente ancora ubbidienti alle leggi de' principi. La stessa fedeltà che conservano i vassalli verso Dio li rende fedeli ai loro sovrani. La ragione è chiara: quando i sudditi sono ubbidienti ai divini comandamenti, cessano le insolenze, i furti, le frodi, gli adulteri, gli omicidi. E così fiorisce lo stato, si conserva la sommessione al sovrano e la pace tra le famiglie."