Un libro di scorrerie linguistiche di Bartezzaghi dentro gli usi e gli abusi della lingua italiana. Bartezzaghi si diverte e ci diverte ritraendo la lingua dal vivo, nei suoi usi quotidiani, televisivi, giornalistici, e, soprattutto, nei suoi abusi. I nuovi esilaranti strafalcioni, i doppi sensi, come è fatto l'italiano che parliamo. Bartezzaghi non è normativo, non usa la matita rossa e blu e non ha nessuna nostalgia dell'uso scolastico dei congiuntivi. Bartezzaghi gioca con le parole, sa che danno felicità, insegue l'allegria, l'assurdo e la follia che si nascondono nella lingua e nella comunicazione. Violata la grammatica, la morfologia e la sintassi, la lingua continua a produrre senso e comunicazione.
Scintilla sul fondo grigio della vita ordinaria, sveglia che interrompe il torpore del pensiero, guizzo di fantasia nel realismo e incursione della realtà nella fantasia: la creatività è un concetto ammaliante e contraddittorio, divenuto ormai mitico, incrostato com'è dei nostri pregiudizi, sogni e velleità. Indefinibile, la creatività per alcuni si può soltanto mostrare. Stefano Bartezzaghi invece vuole dirne qualcosa e perciò ha ordito questo mosaico di riflessioni colte e divertenti, in cui ha radunato aforismi e inedite digressioni, tweet e interviste, letture e citazioni con cui ha dato la parola a "creativi" d'eccezione - da Zadie Smith a Fanny & Alexander, da Omero e Ovidio a David Foster Wallace - alternando teoria e letteratura, intrecciando la leggerezza di Calvino e l'inventiva di Munari, giocando. Ed è proprio un gioco collettivo a infiammare la miccia del Falò: più di cento tweet sulla creatività, raccolti, vagliati, dipanati da Bartezzaghi come fili di una matassa multicolore. Affascinante quanto un enigma per solutori oltremodo esperti, la creatività si rivela così una macchina magica ma anche infida. Pare sfuggire a ogni logica per consolarci di un destino da carrieristi e consumisti, additandoci suggestivi e gratificanti orizzonti: ma essa stessa è, almeno in parte, un'illusione consumistica.
Presente da quasi un secolo su tutti i giornali del mondo, assente da qualsiasi storia del giornalismo, del costume, della lingua, il cruciverba è l'inavvertito elefante che siede nel salotto della comunicazione del Novecento. Molti lo ritengono più antico di quello che è: eppure non poteva che nascere nella New York degli anni Dieci, contemporaneamente a tutto ciò che ha costituito l'orizzonte del moderno, dalla catena di montaggio al cubismo, dal giornalismo dei reportage alla musica jazz. Vuoto, il cruciverba è una griglia ortogonale di caselle; pieno, è un caleidoscopio alfabetico in cui si frammentano e si ricompongono le parole della lingua e i nomi del mondo, dando la possibilità ai lettori di verificare le proprie conoscenze in una sfida con se stessi, circoscritta a una percorrenza in metropolitana o a una sosta in poltrona durante il weekend. La storia del cruciverba è un romanzo. I suoi personaggi sono tutti straordinariamente eccentrici (e apparentemente tutti "normali"), i suoi dialoghi collegano definizioni indiziarie e soluzioni congetturali, la sua ambientazione è la metropoli, con i suoi giornali, i suoi grattacieli, i suoi mezzi di trasporto.
Giampaolo Dossena diventa scrittore catalogando e ideando nuovi giochi.
Marcel Proust nasconde in punti lontani della sua opera le tessere di un puzzle calligrafico.
Vladimir Nabokov gioca a giochi di mondi-parola (world games).
Carlo Emilio Gadda come Nabokov riscuote un'attenzione intermittente.
Raymond Queneau gioca con le regole del gioco e indica la via per diventare «scrittoranti».
Italo Calvino fa un anagramma, senza saperlo, e si accanisce in piú di un solitario, senza risolverlo.
Gianni Celati insegue le segrete prosodie del parlato.
Roland Barthes è ricordato all'incrocio fatale tra écriture e società della comunicazione.
Alberto Arbasino inventa la post-parolaccia, nella vertigine cronologica del suo romanzo maggiore.
Alighiero Boetti compone cruciverba, palindromi, rebus e crittografie in una sua personale enigmistica della figurazione.
Giuseppe Pontiggia ribalta le pedine su una lucida scacchiera.
Truman Capote perde alla roulette americana.
Don DeLillo gioca a baseball con la Storia e i suoi segreti.
David Foster Wallace, grande e audace scrittore, dall'alto di una caricatura esposta su un palco assiste alla celebrazione sua e del gioco che ha portato all'infinito.
«L'arbitro sussurra Giocate Per Favore.
Si può dire che noi giochiamo. Ma in un certo senso è tutto ipotetico. Perfino il "noi" è teoria: non riesco mai a vedere bene l'avversario, per via di tutto l'apparato del gioco» (David Foster Wallace, Infinite Jest).
In Infinite Jest il tennis, «questo infinito sistema di decisioni e angoli e linee», viene visto come un ibrido dei due giochi a cui assomiglia di piú, gli scacchi e il pugilato: aggiunge la forza fisica agli scacchi, sottrae il contatto diretto dei corpi al pugilato, ma abbina la geometria di quelli alla violenza di questo. Come entrambi sfugge alla statistica. Il teorico del tennis ne dà una versione a sua volta mediata da matematica e psicoanalisi: è l'anziano e temibile Gerhardt Schtitt, capo degli allenatori e dei preparatori atletici dell'accademia. L'essenza del suo insegnamento è questa: «Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C'è sempre e solo l'io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall'altro lato della rete: lui non è il nemico; è piú il partner della danza. Lui è il pretesto o l'occasione per incontrare l'io. E tu sei la sua occasione. [¿]. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliori: vinci. [¿] È tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è cosí, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all'infinito».
Tutti i nostri giochi enigmistici hanno una nobile origine legata ai tempi in cui regnava la sapienza dei miti e, anche se oggi sono in buona parte svuotati degli arcani misteri che custodivano, ancora funzionano come memoria di quegli antichi marchingegni. "Tutta la storia dell'enigmistica è una storia di magie che si sono trasformate in giochi. L'enigmistica tramuta oggetti magici in testi d'uso comune, in oggetti culturalmente banali". Con l'aiuto di Aristotele e Eraclito, di Carroll e Lacan, l'autore percorre, sulla base delle lezioni tenute alla Scuola Superiore di Studi umanistici di Bologna, le strade delle astuzie del linguaggio, nella convinzione che la lingua è uno strumento per dire, ma anche per non dire, per spiegare, ma anche per ingannare.