Il 10 luglio 1941, a Jedwabne, un paese di circa tremila abitanti nel nord est della Polonia, una folla di cattolici uccise la maggior parte dei loro vicini di casa ebrei. Il numero delle vittime varia a seconda delle stime: da trecentoquaranta a milleseicento. Qualunque sia la cifra corretta, pochissimi ebrei sopravvissero. Utilizzando asce, bastoni e coltelli, la folla assassinò in piazza circa quaranta uomini. I restanti ebrei - uomini, donne e bambini, molti dei quali neonati - furono ammassati in un fienile nella periferia della città. Poi, mentre la folla osservava con scherno le future vittime, vennero sbarrate le porte e l'edificio fu dato alle fiamme. Morirono tutti. Le case degli ebrei furono saccheggiate. La giornalista polacca Anna Bikont ha ricostruito nei dettagli questo crimine, dando al tempo stesso conto del tentativo da parte delle famiglie dei discendenti degli assassini, dei politici di destra, degli storici, dei giornalisti e dei sacerdoti cattolici di nascondere nei decenni l'accaduto, deviando la colpa sui nazisti o perfino sulle stesse vittime. Un crimine doppiamente efferato ricostruito attraverso le voci dei protagonisti. Una riflessione sulla memoria collettiva: cosa succede a una società che rifiuta di ammettere una verità che distrugge la sua buona coscienza? Come convivere con un passato cosí orribile?
"Confidarsi in pubblico è come perdere l'anima. Qualcosa bisogna pur tenere per sé" ha detto Wislawa Szymborska. E ha detto anche: "Cerco di non pensare troppo a me, e non lo dico per smanceria o per ingraziarmi il lettore. È la verità: non sono al centro dei miei interessi". Scavare nella vita di chi tanto detestava mettersi pubblicamente a nudo e ha fatto della riservatezza la propria insegna potrebbe dunque sembrare un'indebita intromissione. Peggio: un tradimento. Anna Bikont e Joanna Szczesna sono riuscite a evitare questo scoglio. "Cianfrusaglie del passato" (espressione tratta dalla poesia "Scrivere il curriculum") è una biografia non solo rigorosa e documentata, frutto di ricerche e di conversazioni con la Szymborska stessa e con quanti l'hanno frequentata, ma soprattutto discreta. Giacché a risuonare, in ogni pagina, non è la loro voce, ma quella, irresistibilmente ironica, di una donna che - ha scritto Adam Zagajewski - "sembrava appena uscita da uno dei salotti parigini del Settecento". Scopriremo così il suo ambiente familiare, le letture, i giochi dell'infanzia, la vita nel "kolchoz dei letterati" di Cracovia e la giovanile adesione all'idea comunista, la rapida disillusione, e poi la simpatia per Solidarnosc negli anni Ottanta, infine lo spartiacque del Nobel. E scopriremo, alla fine, la sua gravità, la sua profondità, puntigliosamente celate dietro lo schermo della leggerezza giocosa e della impenetrabile discrezione.