Metafisica: ecco la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel). Un fuggire che, a furia di decostruzioni, oltrepassamenti, dichiarazioni di morte o di inesorabile, fatale compimento nelle forme della razionalità scientifica, ha finito col diventare una sorta di habitus del pensiero contemporaneo. E tuttavia, ripercorrendo contropelo le filosofie classiche e i grandi sistemi del razionalismo moderno, così come le più ardite e recenti teorie della scienza, è possibile riscoprire ciò che di quel termine rimane inaudito: la tessitura che collega l'essente in quanto osservabile e determinabile allo s-fondo della sua provenienza e del suo imprevedibile avvenire; la relazione tra la theoría della cosa sotto l'aspetto della sua caducità, nell'ordine di Chronos, e quella che cerca di esprimerla nella sua relazione al Tutto e in tale relazione giunge a considerarla res divina. Nessun 'al di là', nessuna Hinterwelt, o mondo 'dietro' tà physiká, dietro il manifestarsi di Physis. Questo mondo, e il soggetto che intende conoscerlo conoscendo sé stesso, il cui essere-possibile non si arrende al Muro dell'Impossibile, esigono di essere interrogati anche secondo una tale prospettiva. Metafisica concreta, dunque, come Florenskij, scienziato, filosofo e teologo, voleva intitolare l'opera che avrebbe dovuto concludere la sua ricerca. Filosofia e scienza possono in essa ritrovarsi ed esprimere insieme, in forme distinte e inseparabili, l'integrità e inesauribilità della vita dell'essente.
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnicoeconomico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber - e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
All'origine dei diversi discorsi, molti dei quali "alla moda", sulla "fine della filosofia" che, almeno da Nietzsche, caratterizzano tanto pensiero dell'Occidente, sta la "sentenza" hegeliana: che la philosophia cessi di chiamarsi "amante" e si affermi finalmente come puro sapere, Sophia ovvero Scienza. Amore e Sapere debbono dirsi addio. Che il "sophós" dismetta il suo abito di eterno pellegrino e fissi la sua dimora. E questo il destino della nostra epoca? O ancora vi è "ciò" che non possiamo esprimere, rappresentare, indicare se non amandolo? Il discorso filosofico-metafisico porta in sé la traccia di questa tensione, e proprio là dove affronta il suo problema, la sua aporia costitutiva: che l'ente è, che nella sua singolare identità mai coincide con le determinazioni che il lògos ne predica, che la sua sostanza non può disvelarsi nella finitezza del suo apparire. Ogni ontologia deve basarsi su questa differenza - non differenza tra essere ed essente, ma differenza immanente alla realtà dello stesso essente, e in particolare proprio di quello straordinario essente che ha corpo e mente. Oltre l'esercizio sempre più vacuo delle decostruzioni, oltre gli astratti specialismi, oltre le accademie e le scuole, sarà a tale problema, eterno "aporoúmenon", e al "timore e tremore" che suscita, che questo libro intende fare ritorno, ascoltando alcuni grandi classici della tradizione metafisica, per svilupparlo ancora una volta.
Nella "Seconda lettera ai Tessalonicesi", che la tradizione attribuiva a san Paolo, compare l'enigmatica figura di una potenza: il katechon, qualcosa o qualcuno che trattiene e contiene, arrestando o frenando l'assalto dell'Anticristo, ma che dovrà togliersi o esser tolto di mezzo - affinché l'Anticristo si disveli - prima del giorno del Signore. E l'interpretazione di quella figura è qui lo sfondo su cui si dipana una riflessione generale - in costante 'divergente accordo' con la posizione di Carl Schmitt - sulla 'teologia politica', e cioè sulle forme in cui idee e simboli escatologico-apocalittici si sono venuti secolarizzando nella storia politica dell'Occidente, fino all'attuale oblio della loro origine. Con quale sistema politico può trovare un compromesso il paradossale monoteismo cristiano, la fede nel Deus-Trinitas? Con la forma dell'immuro o, invece, con quella di un potere che frena, contiene, amministra e distribuisce soltanto? Oppure occorre cercare una contaminazione tra le due? Non poche delle decisioni politiche che hanno segnato la nostra civiltà ruotano intorno a queste domande, e nell'opera di alcuni dei suoi più grandi interpreti, da Agostino a Dante a Dostoevskij, trovano una drammatica rappresentazione. Il volume è corredato da un'antologia dei passi più significativi della tradizione teologica, dalla prima patristica a Calvino, dedicati all'esegesi della "Seconda lettera ai Tessalonicesi", 2, 6-7.
I maggiori fabbri del volgare europeo, quello pittorico (Giotto), e quello letterario (Dante), si incontrano nella figura di san Francesco - quasi che il loro nuovo linguaggio nascesse precisamente dalla necessità di rappresentarla. Ma l'incontro si rivela un conflitto: le loro interpretazioni della rivoluzione francescana divergono radicalmente e tuttavia non riescono a dar ragione del "crocefisso di Assisi", giacché entrambe lo tradiscono. Eppure, attraverso questi tradimenti, si afferma quello spirito che segnerà la nascita della nuova Europa.
Nel grande dramma del secolo passato, nello scontro totale fra i Titani dell'epoca, l'uomo poteva ancora pensare di avere la propria parte. Il nuovo millennio sembra invece essersi aperto nel segno di una insicurezza che non attiene semplicemente alla situazione storica e sociale o alle condizioni psicologiche della persona, ma al suo stesso essere. D'altra parte il brancolamento attuale della Terra e il tramonto di ogni suo Nomos, dove 'ruoli', immagini e linguaggi si confondono nell'assenza di orientamento e distanza, sono stati possentemente 'profetizzati': tutto questo è già presente, per tracce, nell'Amleto di Shakespeare. E da lì discende fino a Kafka e Beckett. Nel 'dialogo' tra questi autori 'fatali', ricomposto per frammenti, Cacciari coniuga le sue ricerche sulle 'declinazioni' della storia europea (in "Geofilosofia dell'Europa" e nell'"Arcipelago") con quelle sul rapporto tra nihilismo europeo e il linguaggio del Mistico che innervano i fondamentali "Dell'Inizio" e "Della cosa ultima".
Rublev, Piero della Francesca, De Eyck: tre illuminanti esercizi di teologia della visione.
Pubblicato per la prima volta nel 1980, il saggio di Massimo Cacciari viene ora riproposto in una nuova edizione riveduta. Il titolo prende spunto dalla chiesa dello Steinhof, capolavoro jugendstil di Otto Wagner, che sorge sulla sommità di una collina e che sovrasta un paesaggio di "pellegrinaggi infiniti" e "follie interminabili": Vienna. Ed è proprio a questa città e a quegli "uomini postumi" che vi abitarono nei primi anni del Novecento è dedicato il libro. Uomini come Musil, Hofmannsthal, e i loro personaggi, gli eterni nomadi di Joseph Roth, lo "straniero" Trakl, o Wittgenstein. Nomi che rimandano tutti a un centro comune, un centro però vuoto, dove non risiede una Verità da trasmettere, tutt'al più un'assenza.
Quale cosa attinge, "in ultimo", l'anima dopo essersi aperta, attraverso l'angoscia, alla ricerca di sé? È questo l'interrogativo che sottende l'articolarsi di questo saggio. Tre voci in dialogo fra loro e con i "Maggiori Loro", da Platone a Husserl, cercano di rispondere a tale domanda, ognuna seguendo il proprio "demone custode": la voce portatrice di un radicale scetticismo dell'Intelletto, la voce che incarna l'atto di fede in lotta contro se stesso e quella dell'Autore, che si rivolge agli amici attraverso due lunghe serie di lettere, riprendendo e sviluppando le idee della sua più importante opera teoretica, "Dell'inizio". L'attenzione di Cacciari torna a volgersi a quel cominciamento che è il "problema" filosofico fondamentale.
È accaduto, e sta accadendo nei nostri anni, che l'Europa, proprio nel momento in cui giungeva alle soglie dell'unità politica ed economica, si scoprisse in preda a spinte opposte, centrifughe, a resistenze di ogni tipo - teoriche e pratiche - come se il segno dell'unità fosse innanzitutto in questo acuto sentimento di crisi. Come si spiega tutto ciò? Nietzsche scrisse una volta che l'Europa è un malato, anzi un malato incurabile. E da qui prende le mosse l'itinerario di Cacciari.
Mentre da ogni parte vengono a cadere i presupposti di ogni legge, il pensiero tende sempre più a concentrarsi, in ogni ambito, sulla legge stessa. Massimo Cacciari ha posto al centro di questo libro tale situazione paradossale e sfuggente, all'interno della quale tuttora viviamo. E, all'interno del nostro secolo, ha isolato, negli ambiti più diversi, alcuni casi esemplari di quell'ostinato cozzare contro la stessa parola: legge. Ma non si tratta qui di scoprire influenze nascoste o contatti. L'ambizione è ben più radicale: ogni volta si individuano sconcertanti isoformismi fra gesti di pensiero che appartengono a regioni lontane. E così anche repliche e opposizioni trasversali.
Come già dichiara il titolo, Cacciari intende volgere lo sguardo a quel "cominciamento" che è il problema del pensiero filosofico. A questa inattualità nel porre il problema di sempre della filosofia corrisponde una novità perentoria nella articolazione della forma, che abbraccia i tre modi della scrittura filosofica: il dialogo (l'ironia, la ricerca), il trattato (la sistematicità), il parergon (la frammentazione aforistica). Da questi tratti apparirà evidente una voluta arcaicità dell'architetura formale, che implica una vis polemica contro ogni discorso filosofico rassegnato all'inerzia. Qui, al contrario, si riconosce che il pensiero filosofico non può che riproporsi le domande del Parmenide platonico.