Plurimillenaria, spesso appassionata, talora sofferta ma sempre rigorosa, è la riflessione sulla guerra: poderosi (e ponderosi) sistemi speculativi sono stati innalzati per giustificare sotto il profilo giuridico e politico il ricorso alle armi. Ai nostri giorni i tentativi di afferrare concettualmente il fenomeno bellico e inserirlo in schemi politico-giuridici si sono moltiplicati e amplificati. Il terrorismo internazionale si diffonde come un virus geneticamente mutato: siamo di fronte all'epidemia di un male che non sembra riconducibile alla - pur tragicamente variegata - esperienza delle guerre. Ma la follia omicida prosegue la sua corsa e il suo corso lungo il medesimo solco antropologico scavato da interrogativi e questioni antiche. Dunque, per acquisirne consapevolezza sarà più che opportuno, necessario, rintracciare e ritracciare almeno alcuni dei principali tratti, snodi, tornanti di un itinerario che, nel bene e nel male (o tra Bene e Male), ha dato forma alla nostra civiltà.
Il destino dei tiranni è quello di doversi guardare dall'ombra che il potere proietta alle loro spalle: il tirannicidio. Non c'è tiranno che non sia stato esposto alla possibilità di essere rimosso con la forza, come se la tirannide implichi la possibilità dell'omicidio non solo di fatto, ma anche di diritto. Per questo la tradizione politico-giuridica occidentale si è interrogata sin dalle sue origini, in Grecia, se, quando e in quali termini fosse lecito uccidere il tyrannus. Da allora ogni epoca ha affrontato la questione con appassionati dibattiti, accese polemiche, esplosive (in senso figurato e non) dimostrazioni, lungo un fil rouge che questo saggio segue fino ai giorni nostri, ripercorrendo colpi di Stato, attentati e brutali linciaggi. Perché, se la tirannia è una costante dell'esperienza politica - pur con modalità e forme diverse, da Cesare a Gheddafi, da Ipparco a Luigi XVI - lo sarà sempre anche la necessità di rovesciarla, e come recita il motto dei tirannicidi: Sic semper tyrannis!