Uomo eminentemente politico, rientrato dopo un anno di esilio a Roma, Cicerone si dedicò alla scrittura delle sue opere maggiori. I suoi trattati sono improntati a un forte impegno civile, che assoggetta l'educazione etica alla convivenza sociale. Nel "Fato" affronta la contraddizione tra la concezione stoica del destino, inteso come ferrea necessità, e il libero arbitrio, per definire lo spazio decisionale - e le responsabilità - dell'uomo. Nel "Sogno di Scipione" avvalora la vita attiva come fondamento e presupposto della futura felicità ultraterrena, che spetta solo a coloro che hanno agito per il bene comune in funzione della patria.
Si può leggere quest'opera in due prospettive: come "fonte" per ricostruire la storia religioso-filosofica antica in uno dei suoi aspetti più suggestivi, o come espressione del pensiero, dell'ideologia politico-religiosa e dell'arte di Cicerone, in uno dei periodi della sua vita più fecondi di opere e insieme più travagliati biograficamente e politicamente. Cicerone smaschera l'ipocrisia degli indovini, sostenendo che è meglio ammettere la propria ignoranza piuttosto che, per non volerla riconoscere, tentare l'ignoto e postulare la presenza del divino quando è proprio questo misterioso divino che inquina con dubbie pratiche di superstizione la schiettezza della religione.