Il disastro di Roma si è realizzato in tempi brevi: 10 anni. Addossare la responsabilità del collasso all'irruzione di soggetti criminali è un alibi comodo, che scarica la politica delle sue colpe. Lo sfascio si deve innanzitutto alla necessità di foraggiare la clientela, le correnti dei partiti, i potentati economici. Si è creata così una situazione di corruzione pervasiva, all'interno della quale hanno trovato posto anche le contaminazioni col mondo criminale. Ricostruire la vicenda della Capitale significa rimettere a fuoco il ruolo non della mafia ma della politica nel tracollo di Roma.
La morte di Moro sarebbe stata decisa sin dall'inizio del sequestro dello statista e niente avrebbe potuto evitarla, questa è la tesi di più ampia circolazione. Diversa invece l'argomentazione di Andrea Colombo che, analizzando il caos di quei 55 giorni di detenzione, ne rintraccia un filo conduttore. Il Pci temeva l'estremismo e la possibilità di un radicamento del terrorismo in una parte della sua base, la De la crisi di governo perché non si sentiva pronta a nuove elezioni; le Br pensavano che senza il clamore di quella violenza sarebbero scomparse. A condannare a morte Moro non furono né la ragion di Stato né le necessità rivoluzionarie, ci spiega Colombo, bensì la convenienza politica a breve termine, la meschina "logica di partito". La paura di perdere consenso e potere condizionò tutti: i partiti di governo, il Pci ma anche le Br, che un partito si consideravano e che come tale agirono. Il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro furono la conseguenza di un durissimo scontro a sinistra che nel 1978 durava già da dieci anni, e questa "guerra civile" a sinistra ha determinato sia la scelta omicida delle Br, una scelta che gli stessi brigatisti consideravano perdente, sia la rigidità del Pci che di fatto impose alla stessa Democrazia Cristiana la linea della fermezza. Lo scontro finale che si svolse a sinistra nei 55 giorni del sequestro Moro, si concluse senza vincitori.