Esistono innumerevoli parole ed espressioni che fanno parte del nostro linguaggio quotidiano e che spesso, erroneamente, consideriamo una recentissima acquisizione dalla lingua inglese. Quando ci sediamo davanti a un monitor, magari per seguire le lezioni di un tutor o per aggiornarci sull'andamento dell'ultimo summit internazionale attraverso i mass-media, ci sentiamo all'avanguardia e fieri di avere grande dimestichezza con il mondo anglosassone, dimenticando che dobbiamo tanta «modernità» al latino che parlavano i nostri avi. Nell'insolita veste di cultore di una lingua con la quale ha avuto l'opportunità di confrontarsi fin da giovanissimo, Vittorio Feltri risale alle origini di vocaboli e locuzioni di uso comune, illustrandone la genesi e il significato talvolta travisato nel corso del tempo. Molti resteranno forse delusi scoprendo che il celeberrimo alea iacta est - «il dado è tratto» attribuito a Cesare e da sempre usato per sottolineare con fare solenne l'irrevocabilità di una decisione presa - potrebbe essere frutto di un'errata trascrizione da Svetonio, e che la frase corretta (alea iacta esto, «si lanci il dado») era probabilmente un imperioso invito a gettare il cuore oltre l'ostacolo, in questo caso il Rubicone. Ma nelle belle pagine di Feltri, non certo un noioso compendio di letteratura latina, trovano posto anche gli inevitabili e pungenti accenni all'oggi, sia con poco edificanti esempi di quanto siano attuali il do ut des e l'homo homini lupus, sia, per nostra fortuna, con le storie di personaggi che dimostrano il valore del detto per aspera ad astra. Al di là del tono ironico che sempre contraddistingue Feltri, Il latino lingua immortale è in fondo un'appassionata dichiarazione d'amore per una lingua che, ben lungi dall'essere morta, dimostra ogni giorno, e lo farà ancora a lungo, la forza delle sue radici.
«Sposato con l'Atalanta e amante della Fiorentina», innamorato del calcio, ma anche di ciclismo, equitazione e scherma - «lo sport della mia gioventù» -, Vittorio Feltri raccoglie in questo volume alcuni dei suoi più riusciti racconti di sport e ritratti di campioni. Feltri entra col suo stile in un mondo a cui solitamente non appartiene e crea un capolavoro di autonomia, di schiettezza, ciò che spesso il giornalismo sportivo militante non può permettersi, costretto com'è a restare nei confini della neutralità. Feltri rappresenta il calcio come fa con la politica o con il costume, si serve del suo universo di opinioni indipendenti e si regola come farebbe con un politico: lo tira giù dal suo Olimpo per guardarlo negli occhi. «Altro che giornalismo sportivo anodino e sopra le parti. Nel giornalismo come nello sport si versa tutto se stessi.» Accanto alle argute pagine dedicate ai tanti, notissimi atleti del nostro panorama sportivo presente e passato - da Federica Pellegrini a Valentino Rossi, da Francesco Totti a Danilo Gallinari, da Valentina Vezzali ad Alberto Tomba, a Felice Gimondi, il campione «vincente anche nelle sconfitte», mancato nel 2019, cui il libro è dedicato -, riaffiorano in queste pagine emozioni e ricordi personali, come le partite giocate nella caserma di Orvieto durante il servizio di leva con l'«eroe gentile» Gianni Rivera. Per Feltri lo sport è cosa seria, anzi serissima: «è rifugio e forza» perché «nello sport c'è dentro la durezza e la bellezza, lo scontro e l'abbraccio, la vita e la morte, simboleggiati dalla vittoria e dalla sconfitta».
Molto si sa del Vittorio Feltri giornalista e della lunga e fortunata carriera che lo ha visto passare da un piccolo giornale di provincia al «Corriere della Sera», fino a diventare direttore di testate come «Libero» e «il Giornale» che, sotto la sua dirompente conduzione, si sono affermate tra i quotidiani più letti in Italia. Meno noti, invece, sono alcuni aspetti della sua vita privata e del suo carattere, perché tenuti gelosamente nascosti dietro l'immagine battagliera e spesso cinica che il direttore mostra in pubblico. Attraverso il racconto di amicizie indelebili strette nel corso degli anni e di aneddoti divertenti, "L'irriverente" svela un Feltri inconsueto e inaspettato: lo scopriamo involontario autore di un verso di Giorgio Gaber, oppure impegnato in chiassose partite a biliardo insieme a Nicola Trussardi negli anni dell'adolescenza o, ancora, votato a riportare sulla retta via il «fuoriclasse» amante del sushi Alberto Ronchey, che convertirà alla pastasciutta. Tanti sono anche i ricordi che lo legano a colleghi diventati poi veri amici, a partire dai direttori del «Corriere della Sera» Franco Di Bella e Piero Ostellino, fino all'inimitabile Gianni Brera - giornalista «massiccio, ricco e appassionato» -, che celebrò il loro incontro stappando una bottiglia di Grignolino. E ancora si avverte bruciare, in queste brevi pagine scritte a distanza di anni, l'indignazione per le vicende giudiziarie che coinvolsero Enzo Tortora e Angelo Rizzoli, ai quali Feltri non fece mai mancare il proprio sostegno pubblico e privato. Il tono impertinente e ironico che sempre vena i suoi scritti si stempera quando il direttore rivolge il pensiero alla propria infanzia, segnata dalla prematura perdita del padre e dai sacrifici della madre, costretta a provvedere da sola a tre figli piccoli, e alle lunghe vacanze estive a casa dello zio in Molise, dove le giornate a zonzo per il paese e l'uovo bevuto crudo dal guscio avevano un sapore di leggerezza e libertà mai dimenticato. Ma è solo un attimo, perché cedere al sentimentalismo non è certo una prerogativa di Feltri, che ancora una volta conferma di essere una delle penne più corrosive e anticonvenzionali della stampa italiana.
Tutti traditori, tutti ladri, noi italiani? A scorrere le graduatorie mondiali sulla «corruzione percepita», il nostro Paese è la Silicon Valley dove si brevettano i marchingegni più fantasiosi in materia. Non per combatterla, ma per praticarla. Insomma, oltre che il luogo del pianeta con il maggior numero di siti dell'Unesco intesi come patrimonio materiale dell'umanità, il nostro Paese è anche quello del patrimonio immateriale del «se pò ffa'» in barba alla legge, un'attitudine che siamo usi chiamare furbizia mentre è arte perversa del furto con destrezza. Se vogliamo provare a contrastare, o almeno a limare, questo odioso costume nazionale, dobbiamo capire che corrotti, concussi, bustarellari - l'intera fauna dei voraci percettori abusivi di quote di Pil - sono solo diverse incarnazioni della disonestà. Ma per cambiare le cose, per redimerci davvero, abbiamo il dovere di sentirci tutti un po' ladri, anche quando accettiamo, per esempio, di pagare per poter anticipare un esame o un intervento chirurgico in ospedale. Invece, pur smascherati nella nostra ipocrisia, ci assolviamo per il semplice fatto di essere minuscoli pesciolini che nuotano sentendosi innocenti per aver cercato di esercitare un diritto negato dai pescecani. Con queste pagine affilate e corrosive Vittorio Feltri vuole inocularci il benefico virus dell'inquietudine, per scalfire la nostra cronica amoralità e rivelare la nostra, spesso inconsapevole, complicità. Così da essere nemici di ladri e ladroni non in modo iroso ed episodico, ma avvertito e sistematico. Ostili, in particolare, al miserabile ladruncolo che alberga in ognuno di noi, e che ci rende fiacchi nel ripulire la politica e la società intera da questo diffuso fenomeno canceroso. Dunque, nessun coltello tra i denti, nessun cappio in mano, agitato di solito dal più mascalzone di tutti. Ma una lieve e salutare scossa per non addormentarci pensando di avere la coscienza a posto.
Chi sono i nuovi cafoni? Cafoni si nasce o si diventa? Un giornalista come Vittorio Feltri e uno scrittore irriverente come Massimiliano Parente hanno unito le penne per (descrivere questo graffiante galateo al contrario. Un divertente viaggio per riconoscere il vero cafone in ogni ambito e circostanza della vita: dalle cene romantiche (con il pensiero fisso al dopo) alle feste in appartamento (dove il momento del congedo si trasforma spesso in un'"anticamera della morte"), dalle vacanze al mare (assediati da maniaci dell'abbronzatura e forzati dei racchettoni) alle estati in città (popolate solo di canotte sudate e sandali alla Padre Pio), dai viaggi in treno (torturati da vicini attaccabottoni) ai talk show televisivi (dove l'imperativo categorico è darsi sulla voce), ai funerali (con i vip sempre girati in favore di telecamera). Dopo averlo letto scoprirete, sorridendo di pagina in pagina, quanto in ognuno di noi si nasconda un vero cafone. E ce n'è per tutti, nessuno escluso.
Lettere riservate a capi di governo, telefonate segrete alle più alte cariche di Stati sovrani, pressioni esercitate in mille modi da poteri forti che si muovono al di fuori e al di sopra delle elementari regole democratiche. La storia del ruolo svolto in questo inizio secolo dalla Germania in Europa, e in particolare nell'Unione europea, è ancora tutta da raccontare, soprattutto in relazione alle vicende politiche dell'Italia, il paese che per decenni è stato suo partner amichevole ma anche temibile concorrente economico sui mercati mondiali. Di questa storia, Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano tracciano qui il quadro generale e non esitano a parlare di "Quarto Reich", una formula che, lungi dall'essere una banalizzazione giornalistica, è la sintesi estrema, e forse inquietante, della situazione venutasi a creare nell'area euro. In un decennio, infatti, grazie alla moneta unica e alla gabbia istituzionale dell'Unione, la Germania è riuscita a costruire sul Vecchio Continente una condizione di predominio economico e di egemonia politica. L'impossibilità di dissentire sulle leggi del rigore dettate dagli euroburocrati e ispirate da Berlino ha privato gli altri paesi membri di ogni reale sovranità economica e ha concentrato tutto il potere decisionale nelle mani delle élite e delle strutture comunitarie. Ma se per i cittadini tedeschi l'"era del Quarto Reich" significa benessere, lavoro e crescita, per le altre nazioni, soprattutto del Sud Europa, vuol dire povertà, disoccupazione e recessione.
"Dobbiamo avere più paura di quella che abbiamo. Una paura così grande da trasformarsi nel coraggio di uccidere per non morire." In questo acuminato pamphlet di Vittorio Feltri la paura diventa, paradossalmente, la madre del coraggio. Il coraggio di riconoscere un nemico in tutta la sua pericolosità e, quindi, di affrontarlo. Oggi il nemico è quella parte del mondo musulmano che, con nomi diversi (al-Qaeda, Isis, Stato islamico, Califfato), si è organizzata militarmente e statualmente per conquistare l'Occidente, e che, con l'attentato terroristico alla sede della rivista satirica parigina "Charlie Hebdo", ha colpito la democrazia occidentale in uno dei suoi princìpi cardine: la libertà di espressione. Rendendo sempre più evidente quel mortale scontro di civiltà di cui Oriana Fallaci, come una moderna Cassandra, si fece premonitrice inascoltata nei suoi ultimi scritti. Dobbiamo avere più paura, ci ammonisce Feltri, perché questi terroristi non sono membri di cellule impazzite, bensì guerrieri di un esercito il cui cemento è l'odio per l'Occidente e l'assoluta intolleranza religiosa verso chiunque si discosti dall'islam e dalla "sharia", la legge che regola anche i costumi quotidiani e i rapporti familiari e interpersonali, calpestando la dignità delle donne con la totale sottomissione al potere maschile e indottrinando i figli a una pratica religiosa che, con la sua barbarie, travalica i limiti del più elementare concetto di umanità...
"Siamo legati a una strana idea della politica. Non la consideriamo lo strumento che dovrebbe permetterci di vivere meglio, ma una religione, nei confronti della quale c'è solo fede cieca e nessuna voglia di ragionare. Si procede senza valutare il proprio interesse, comportamento tipico di un Paese che non sa cosa sia la patria, quindi si attacca a un partito, a una confessione religiosa, talvolta al calcio. Tutto, pur di non riconoscersi come popolo unico e come patria." Gennaro Sangiuliano e Vittorio Feltri ripercorrono le vicende fondamentali del dopoguerra, dalle origini della Repubblica fino alla nostra desolante attualità, per giungere a una conclusione sconfortante: l'Italia è una Repubblica senza patria, che è come dire uno Stato senza nazione, fatto di cittadini che si riconoscono solo nel proprio gruppo, che perseguono solo il proprio tornaconto. Gennaro Sangiuliano ricostruisce storicamente la cronaca degli anni fra il 1943 - dalla firma dell'Armistizio e dalla fuga del re - e gli anni Settanta del Novecento. La matrice che a suo parere unisce tutte le esperienze politiche italiane è la divisione, la mancanza di una prospettiva condivisa della Stato e dello sviluppo economico e culturale della nazione. Vittorio Feltri racconta invece gli anni della nostra storia più recente: dall'esperienza del centrosinistra di Fanfani alla strategia della tensione; da Mani Pulite alla nascita della Lega e all'avvento di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana.
Mezzo secolo di politica, economia, cultura, costume, cronaca, spettacolo e sport. Mezzo secolo di personaggi conosciuti da vicino oppure osservati da lontano: pontefici, presidenti, premier, ministri, leader di partito, magistrati, imprenditori, editori, giornalisti, attori, conduttori televisivi, artisti, campioni, galantuomini e criminali. Vittorio Feltri segna buoni e cattivi sulla lavagna della storia. Ne esce un catalogo umano in ordine alfabetico dettato dalla memoria, compilato insieme a Stefano Lorenzetto, che nel 2010 aveva intervistato Feltri ne "Il vittorioso". Con tanto di voti in pagella, da 1 a 10, come usava un tempo sui banchi di scuola. Solo che qui gli alunni si chiamano Papa Francesco, Giorgio Napolitano, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Beppe Grillo, Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Umberto Bossi, Antonio Di Pietro, Enzo Biagi, Daria Bignardi, Adriano Celentano, Fiorello, Riccardo Muti, Gino Bartali, Pietro Pacciani... I buoni? Da Oriana Fallaci a Indro Montanelli. Voto: 10. I cattivi? Da Camilla Cederna a Gianfranco Fini. Voto: 2.