Fino a poco tempo fa la «mentalità storica» diffusa si alimentava di libri, giornali e talvolta programmi televisivi. Con l'avvento dei social è avvenuto un mutamento epocale: Facebook, Twitter, Instagram e TikTok sono diventate arene pubbliche di discussioni muscolari, nelle quali la storia fa capolino continuamente. Perché frequentando i gruppi online una cosa è certa: agli italiani piace moltissimo parlare del passato; il problema è che troppo spesso ne parlano male, senza strumenti adeguati, piegando ogni argomento alla propria preconcetta visione del mondo, ignari dei pericoli che tutto ciò comporta per il presente. Francesco Filippi si rivolge a questo ecosistema digitale con un libro ironico e al tempo stesso terribilmente serio, mettendo in luce tutte le storture del discorso storico online e delineando per punti le fallacie e le incongruenze di buona parte del chiacchiericcio della Rete. Ma non tutto è da buttare: il mondo social è variegato e, soprattutto, ha le sue regole; e chi si occupa di storia non può ignorarle, se vuole interagire col mondo in cui vive.
Tra i molti temi che infiammano l'arena pubblica del nostro Paese ne manca uno, pesante come un macigno e gravido di conseguenze evidenti sulla nostra vita qui e ora. Quando in Italia si parla dell'eredità coloniale dell'Europa si punta spesso il dito sull'imperialismo della Gran Bretagna o su quello della Francia, ma si dimentica volentieri di citare il nostro, benché il colonialismo italiano sia stato probabilmente il fenomeno più di lunga durata della nostra storia nazionale. Ma è una storia che non amiamo ricordare. Iniziata nel 1882, con l'acquisto della baia di Assab, la presenza italiana d'oltremare è infatti formalmente terminata solo il primo luglio del 1960 con l'ultimo ammaina-bandiera a Mogadiscio. Si è trattato dunque di un fenomeno che ha interessato il nostro Paese per ottant'anni, coinvolgendo il regno d'Italia di epoca liberale, il ventennio fascista e un buon tratto della Repubblica nel dopoguerra, con chiare ricadute successive, fino a oggi. Eppure l'elaborazione collettiva del nostro passato coloniale stenta a decollare; quando il tema fa timidamente capolino nel discorso pubblico viene regolarmente edulcorato e ricompare subito l'eterno mito autoassolutorio degli italiani «brava gente», i colonizzatori «buoni», persino alieni al razzismo. Siamo quelli che in Africa hanno solo «costruito le strade». Se la ricerca storiografica ha bene indagato il fenomeno coloniale italiano, a livello di consapevolezza collettiva, invece, ben poco sappiamo delle nazioni che abbiamo conquistato con la forza e ancora meno delle atroci violenze che abbiamo usato nei loro confronti nell'arco di decenni. In questo libro Francesco Filippi ripercorre la nostra storia coloniale, concentrandosi anche sulle conseguenze che ha avuto nella coscienza civile della nazione attraverso la propaganda, la letteratura e la cultura popolare. L'intento è sempre quello dichiarato nei suoi libri precedenti: fare i conti col nostro passato per comprendere meglio il nostro presente e costruire meglio il futuro.
Dopo "Mussolini ha fatto anche cose buone", Francesco Filippi è ormai riconosciuto come una voce importante nel dibattito sul fascismo in Italia. Avendo effettuato il suo meticoloso e definitivo lavoro di «debunking» sulle numerose e ostinate leggende relative al ventennio fascista e alla figura del duce, ancora così diffuse nel nostro paese, Filippi dirige ora la sua affilata analisi verso i motivi che hanno portato tanti nostri concittadini a cadere vittime, ancora oggi, di una propaganda iniziata oltre due generazioni fa. Com'è possibile - ci si chiede in molti - che dopo tutto quello che è successo - dopo una guerra disastrosa, milioni di morti, l'infamia delle leggi razziali, la vergogna dell'occupazione coloniale, una politica interna economicamente fallimentare, una politica estera aggressiva e criminale, un'attitudine culturale liberticida, una sanguinosa e lunga guerra civile... -,oggi ci guardiamo intorno, ben addentro al terzo millennio, e ci scopriamo ancora fascisti? Ma cos'altro avrebbe dovuto succedere per convincere gli italiani che il fascismo è stato una rovina? Eppure ancora si moltiplicano le svastiche sui muri delle città, cresce l'antisemitismo, un diffuso sentimento razzista permea tutti i settori della società e il passare del tempo sembra aver edulcorato il ricordo del periodo più oscuro e violento d'Italia: a quanto pare la storia non ci ha insegnato abbastanza, non ci ha resi immuni. Per aiutarci a capire perché, Filippi in questo libro ci racconta molte cose: ci racconta com'è finita la guerra, cosa è stato fatto al termine del conflitto e cosa non è stato fatto, quali provvedimenti sono stati presi nei confronti dei responsabili, quali invece non sono stati presi, cosa hanno scritto gli intellettuali e gli storici e cosa non hanno scritto, cosa è stato insegnato alle nuove generazioni e cosa invece è stato omesso e perché. Soprattutto, ci mostra come noi italiani ci siamo raccontati e autoassolti nel nostro immaginario di cittadini democratici, senza mai fermarci a fare davvero i conti col passato. Che, infatti, non è passato.
Se ci mostrassero una serie di immagini di prodotti industriali - automobili, elettrodomestici, computer, cellulari - e ci chiedessero di metterle in sequenza cronologica, è probabile che non sbaglieremmo, anche se ignorassimo i requisiti tecnici e prestazionali di quegli oggetti. A guidarci basterebbe la loro forma, segnale inequivocabile di maggiore o minore attualità. L'alleanza tra la forma e il tempo di cui diventa espressione è insieme ragion d'essere e principio regolatore del design. Discendente dalla nobile schiatta dell'architettura e dalla meno titolata arte manifatturiera, il design ha dato corso alla sua natura di figlio ribelle, febbrilmente votato all'innovazione, tra guizzi autoriali e consapevolezza dei vincoli tecno-economici posti alla sua peripezia intellettuale, e sempre in fuga dall'etichettatura metodologica e disciplinare. Francesco Trabucco, che lo pratica e lo insegna, ed è in materia un'autorità internazionale, proprio dal carattere sfuggente del design riesce a ricavare il suo identikit. Per tracciarlo occorre sfogliare l'intero vocabolario del nuovo fiammante. Il lavoro di design infatti attribuisce nuove qualità estetiche ad artefatti materiali o digitali già esistenti, ne inventa di nuovi, allestisce nuovi scenari d'uso per le merci, compila nuovi prontuari di senso per comportamenti inediti, si avventura a progettare addirittura l'esperienza nei nuovissimi territori virtuali.
Hampstead Garden, nordovest di Londra, è il quartiere della buona borghesia ebraica, ricca, istruita, liberal, solidale: tutti conoscono tutti, tutti frequentano tutti, tutti sono pronti a soccorrere chiunque si trovi in difficoltà. Adam e Rachel si conoscono da sempre, si amano dall'adolescenza, e stanno per fidanzarsi. La comunità segue l'evolversi della relazione da quando è nata, tutti aspettano il matrimonio, i figli. Tutto va come dovrebbe andare fino a quando, da New York, città di liberi costumi e strane usanze, arriva Ellie, la cugina di Rachel: bellissima, fragile, dolce, infelice, anticonformista. Ellie è una sopravvissuta, come tanti dei membri anziani della comunità: non ai campi di concentramento, ma alla morte della madre in un attentato terroristico in Israele, e alla conseguente decisione del padre di vagare per il mondo portando la piccola con sé. Tra Adam ed Ellie è amore al primo sguardo. Entrambi resistono, si evitano, si cercano, irresistibilmente attratti e irrimediabilmente divisi. Fino a quando Adam, avvocato nello studio del padre di Rachel, viene incaricato di risolvere la situazione incresciosa, pericolosa, che Ellie si è lasciata alle spalle a New York. I due sono costretti a incontrarsi, per lavoro, fino a quando una malattia di Ziva, la nonna di Ellie e Rachel, fornisce ai due innamorati impossibili l'occasione di infrangere le regole.
È difficile pensare un'antropologia che si occupi soltanto di «noi»; ma è altrettanto difficile pensare un'antropologia che si occupi soltanto degli «altri». Concepire l'antropologia come un «giro più lungo» che si snoda tra le altre società significa anche prevedere per il «viaggio» etnografico un ritorno. Ma ¡1 ritorno dell'antropologia sul «noi» non è conclusivo e tanto meno definitivo: non è un ulteriore accorgimento per separare noi dagli altri (strumentalizzando ancora una volta il loro sapere a nostro vantaggio); è invece il tentativo coraggioso di collocare noi, e il nostro sapere, in mezzo agli altri, alle loro culture, alle loro forme di vita e di saggezza. Cosi facendo, l'antropologia non si accontenta di gettare anche noi in mezzo al mucchio etnografico, bensì propone vie, percorsi, reti di connessioni, mediante cui riflettere sulle opacità del noi e sulle capacità di qualsiasi noi di aprirsi una strada verso gli altri.
La mediazione familiare è una nuova opportunità offerta a chi sta affrontando l'esperienza della separazione e del divorzio e si propone di sollecitare il mantenimento delle competenze decisionali e relazionali dei protagonisti della vicenda. Il mediatore familiare, operatore in possesso di una formazione specifica, su libera richiesta delle parti e in una posizione di affiancamento, ma al tempo stesso di autonomia, rispetto all'ambito giudiziario, si adopera affinchè i partner elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli. Il libro, destinato anzitutto alla formazione degli operatori del settore, rappresenta una tappa fondamentale nel panorama delle pubblicazioni italiane sull'argomento: analizza il fenomeno "separazione" con particolare riguardo agli effetti sui figli, delinea i principi generali dell'intervento di mediazione familiare, propone un modello originale, centrato sulla realtà italiana, e ne illustra gli aspetti più strettamente tecnici. Completa il volume la presentazione di un'interessante casistica.
A lungo considerata esclusivamente nella sua versione anglo-americana o tedesco-scandinava, l'eugenetica è oggi concepita dagli storici della scienza come un fenomeno culturale, sociale e politico di ampia portata internazionale. Al caso italiano è dedicato questo volume, che ne analizza in chiave comparativa la rilevanza internazionale e gli sviluppi interni, nel periodo compreso fra gli inizi del Novecento e gli anni settanta. Un arco di tempo nel quale l'eugenetica ha progressivamente cambiato volto: dal problema della responsabilità riproduttiva dell'individuo nei confronti della società si è passati al riconoscimento dell'autonomia riproduttiva dell'individuo all'interno del rapporto medico-paziente.
L'opera ormai più che trentennale di Alain de Benoist, capofila della cosiddetta "Nuova destra", affronta i problemi della modernità al di fuori e contro l'egualitarismo e l'universalismo da lui considerati caratteristici di una sinistra tutta interna alla tradizione giudeo-cristiana. Il volume è uno studio del più importante tentativo di rinnovare la cultura di destra del nostro tempo, non riducibile come spesso si è fatto soprattutto in Italia a un generico fascismo, e in grado invece di fornire una critica della modernità sui temi dell'economia, dell'ambiente e delle differenze culturali.
Il testo è suddiviso in tre parti che curano rispettivamente gli aspetti normativi della teoria dell'informazione, lo studio della teoria dei codici di sorgente e dei codici correttori d'errore e la comprensione dei modelli matematici che sono alla base delle moderne tecniche crittografiche per la protezione (attiva e passiva) dei dati mediante cifrari. La trattazione congiunta, in unico libro, di tali argomenti si giustifica in base alla considerazione che tanto la teoria dell'informazione quanto la crittografia devono il loro assetto normativo attuale ai lavori di Claude E. Shannon, che dotò di un modello matematico efficace e stabile sia il processo di trasmissione dell'informazione sia quello relativo alla sua protezione.
Il libro ricostruisce quella che si può chiamare l'autocoscienza dell'Estrema destra italiana, concentrata su una identificazione con la Repubblica sociale italiana per cui, per quasi cinquant'anni, si è assistito alla rivendicazione di un'identità politica che coincideva con i venti mesi di quell'esperienza. Questa rielaborazione avvenne, secondo l'autore, in assenza di una storiografia di destra che, dotata delle necessarie basi metodologiche, potesse contrastare quella di orientamento antifascista. Il libro intende colmare una lacuna nella conoscenza di pensiero di Estrema destra.