Gli scritti brevi di Gioacchino sono uno strumento importante per comprendere il suo pensiero nelle sue line più decisive, che qui, rispetto alle grandi opere, si possono cogliere in una lettura sintetica e veloce. In questo volume (che, dopo la prima parte già apparsa in questa stessa collana, ne completa la raccolta) si trovano: Soliloquio, una meditazione sulla vita dell'uomo, di miseria, e sul suo futuro di gloria; Le tribolazioni ultime, che rappresenta un compendio maturo della previsioni sugli eventi della fine dei tempi, ritenuta prossima; le Lettere, che costituiscono una testimonianza preziosa dell'autocoscienza dell'abate come autore e come membro della gerarchia ecclesiastica; la Visione della storia e l'Inno sul regno della patria celeste, che sotto la veste poetica mostrano, in sintesi e con immagini potenti, elementi significativi della sua speculazione. Alla traduzione annotata dei tre scritti è affiancato il testo latino, tratto dall'edizione critica degli Scripta breviora (2014) curata da Alexander Patschovsky e Gian Luca Potestà.
Nella "Confessione di fede" e negli "Articoli di fede" Gioacchino da Fiore si presenta non tanto nelle consuete vesti di esegeta biblico, specialista dell'Apocalisse, né di teologo della storia che annuncia "profeticamente" l'imminente terza età dello Spirito, quanto come teologo a confronto con altri teologi e nei panni del teologo-abate, maestro dei suoi monaci. Nella "Confessione di fede" Gioacchino esprime una cultura teologica assimilata anche attraverso i testi della scolastica, in particolare le "Sentenze" di Pietro Lombardo. I destinatari del breve scritto sono teologi dotti, cui l'abate si rivolge probabilmente dall'abbazia di Casamari tra 1182 e 1184. Di altro genere è l'impostazione degli "Articoli di fede". I temi trattati sono comunque teologici, ma sono i toni e il lessico a essere diversi e a indicare che i destinatari sono i monaci della sua comunità, rappresentati dal filius Giovanni. L'abate di Corazzo non evita di toccare problematiche dibattute a quel tempo negli ambienti scolastici, ma il largo spazio riservato alle questioni monastiche e ai concreti problemi della gestione dei differenti carismi e ruoli, presenti all'interno di un'unica comunità religiosa, fa risaltare il suo volto di abate, impegnato a istruire i monaci a lui affidati.
Gioacchino da Fiore è stato in primo luogo un monaco che aspirava a un ritorno al rigore ascetico delle origini benedettine e intendeva pertanto promuovere una radicale riforma dei Cistercensi, nei cui ranghi era dapprima entrato. Filo conduttore delle sue riflessioni furono la Vita di Benedetto da Norcia, delineata nei Dialogi di papa Gregorio Magno, e la Regula attribuita al santo padre del monachesimo occidentale. In realtà l'abate di Fiore non provvide mai alla stesura di un vero e proprio testo, radunando in forma di trattato una serie di esposizioni redatte verosimilmente negli anni in cui andava prendendo forma compiuta il suo sistema esegetico e teologico. Egli era comunque assai sensibile ai maggiori eventi dell'epoca. In particolare, anche nel suo caso una profonda impressione fu esercitata dalle notizie provenienti dal Vicino Oriente, dove le armate del Saladino nel 1187 spazzarono via gli ultimi resti del Regno latino di Gerusalemme. Da tale evento Gioacchino trasse lo spunto per ricondurre le proprie argomentazioni all'elaborazione di una peculiare teologia della storia. Testo critico e introduzione di Alexander Patschovsky.
Nel corso del medioevo l’atteggiamento dei cristiani nei confronti degli ebrei era fondamentalmente negativo e si esprimeva anche attraverso le opere di una letteratura antiebraica, al cui interno spiccavano i testi di un monaco cluniacense, l’abate Pietro il Venerabile, e di un convertito spagnolo, Pietro Alfonsi. Gioacchino da Fiore conosceva questi testi, elaborando dal canto suo una posizione del tutto differente. Egli non si rivolgeva agli ebrei per convertirli, ma ai cristiani, per convincerli che con l’incarnazione di Gesù la storia del popolo di Israele non era finita: nel futuro degli ultimi tempi della storia, che secondo l’abate si stava avvicinando nei giorni in cui egli scriveva, gli ebrei e i gentili si sarebbero riuniti in un unico popolo di credenti.
Questa visione, che non trovava precedenti né ebbe seguito, fu affidata a un testo in cui Gioacchino da Fiore accumulava e commentava ampiamente brani delle Scritture sacre degli israeliti – il Vecchio Testamento dei cristiani –, trovandovi la conferma della dottrina della Trinità e la prefigurazione dell’avvento del Messia nella persona del Cristo. In tutto questo egli affidava a se stesso un ruolo analogo a quello del profeta Elia e indirizzava ai suoi ascoltatori una Esortazione a prepararsi ad accogliere insieme ebrei e cristiani alla fine della storia umana
Fonti agiografiche e documentarie attestano che Gioacchino da Fiore svolse attività di predicazione, sia interna sia esterna al chiostro. Ben poco tuttavia dei suoi sermoni è giunto fino a noi: possediamo soltanto due brevi raccolte di testi, i "Sermoni e capitoli sulla lettera e lo spirito" e "Sei sermoni dell'anno liturgico", qui pubblicati nel testo latino con traduzione italiana a fronte.
È l'opera principale di teologia trinitaria di Gioacchino da Fiore. Contiene un trattato sulla Trinità, che si inscrive nel dibattito teologico del secolo XII ed è incentrato sulla comprensione della trinità di Dio nella figura dello strumento a dieci corde per la salmodia, suonato dal re Davide. Inoltre sviluppa una lettura innovativa rispetto alla tradizione dell'esegesi biblica nel suo tempo, incentrandola sul progresso della conoscenza di Dio nel corso dei tre principali stadi o "stati" attraversati dal popolo di Dio dall'inizio alla fine della storia del mondo; vi viene anche esposta una teoria della società cristiana, considerata nello spirito della contemplazione monastica.