«Decrescita»: che cosa si intende esattamente con questa parola? Un'inversione della curva di crescita del prodotto interno lordo, indice statistico che dovrebbe misurare la ricchezza? La fine dell'ideologia della crescita, ovvero del produttivismo? Se la crescita è una fede nel progresso, allora la decrescita può sembrare la cifra di una perdita. Serge Latouche ci spiega che non è così. Mentre l'idea di una crescita infinita è negata in modo sempre più evidente dai limiti del pianeta, il mito della ricchezza e della produttività svela ogni giorno di più il suo lato oscuro. È infatti sempre più probabile che, al di là di una certa soglia, l'aumento del PIL implichi una diminuzione del benessere. Nella società della produttività illimitata non aumentano solo le disuguaglianze, anche la felicità promessa ai «vincenti» si rivela un'illusione. All'aumento dei consumi corrisponde il degrado della qualità della vita (l'acqua, l'aria, l'ambiente), il ricorso sempre maggiore a strategie di compensazione (medicine per lo stress e altre patologie, i viaggi, lo svago), l'aumento dei prezzi di beni essenziali ogni giorno più scarsi (acqua, energia, spazi verdi). La soluzione per Latouche è la decrescita. Che significa rompere con la società della crescita, con l'economia capitalistica, con il produttivismo e con l'occidentalizzazione del mondo. Ma anche recupero di quanto in questi anni è andato perduto: un senso del sacro che restituisca legittimità alla dimensione spirituale dell'uomo, in forme anche completamente laiche. La decrescita come arte di vivere. Un'arte sobria e dalle forme variegate, di volta in volta da inventare e da costruire, un'arte, soprattutto, volta a vivere bene: in accordo con se stessi e con il mondo.
«Non sopportava di essere classificato e ha fatto di tutto per risultare inclassificabile». In quel «tutto» è la chiave di un pensiero che Jean Baudrillard stesso ha provveduto funambolicamente a minare di paradossi, da vero scompigliatore, per scoraggiare possibili riprese. Tuttavia l'«assenza di un orizzonte d'azione e di speranza», che oggi sembra averlo esiliato dal discorso pubblico della filosofia, ha favorito in passato la lunga fascinazione esercitata dalla sua inventività concettuale: la teoria della seduzione e del simulacro, l'idea dell'implosione del sistema (e del terrorismo come sua estrema manifestazione), dell'ipertrofia del virtuale e dell'immondializzazione hanno scosso gli schemi mentali di fine secolo. Nessuno finora si era azzardato a ricomporre quel «puzzle barocco» attorno a nuclei tematici. Serge Latouche invece è convinto che rinunciare a una cronologia convenzionale, seguendo il «cammino immobile» dell'opera, sia l'unico modo per scrivere la biografia intellettuale di Baudrillard. Una vicenda in cui lo stesso Latouche ha avuto parte, negli anni settanta del Novecento, all'epoca della critica della società dei consumi. Allora credeva che Baudrillard si prefiggesse il suo stesso obiettivo, ossia la fuoriuscita dall'economia; si accorse presto dell'equivoco, destinato a segnare il loro legame, ma non a precludere la collocazione postuma dell'amico tra i «precursori della decrescita». Quando Baudrillard è morto, nel 2007, ogni territorio che aveva attraversato - sociologia, filosofia, semiologia, antropologia, linguistica, arte - recava le tracce del suo folgorante passaggio. Un lascito ingente e disperso, che solo Latouche è riuscito a inventariare, in assenza di eredi designati. Perché Baudrillard, come non ha riconosciuto alcun maestro, così non ha voluto alcun discepolo. La sua unicità priva di albero genealogico è uno degli enigmi di cui Latouche raccoglie la sfida.
Quando si parla di economia non è azzardato dire che si tratti di una vera e propria religione. Come la religione anche l'economia ha le sue chiese e i suoi templi - le banche e le borse - imprese, agenti di cambio o esperti di finanza sono le sue cattedrali, i suoi prelati o profeti; la pubblicità e il marketing sono le preghiere che ne officiano la liturgia: il consumo. Non a caso secondo Serge Latouche in questo libello combattivo, sulle banconote americane troviamo fissato il motto «In God We Trust» e, se dovessimo immaginare i Dieci comandamenti del capitalismo, non sfigurerebbe la battuta fulminante del finanziere di Wall Street: «L'avidità è giusta». L'idolatria della crescita solleva, dunque, la questione della natura quasi religiosa dell'economia di mercato. Una religione secolare e materialista che disincanta il mondo, distruggendo il legame sociale e gli ecosistemi necessari per la sopravvivenza dell'umanità. «Desacralizzare» la crescita, secondo Latouche, consiste innanzitutto nel rivelare il modo in cui ha avuto luogo la sua sacralizzazione. Il progetto di una società alternativa sostenibile e amichevole, guidata dalla decrescita, mira invece a uscire dall'incubo del produttivismo e del consumismo, ma anche a reincantare il mondo e riguadagnare la nostra capacità di meravigliarci per la sua bellezza. Anche papa Bergoglio d'altra parte - con la sorprendente enciclica Laudato si' - ha annunciato che la compatibilità tra la decrescita e la religione tradizionale diventa possibile e che la decrescita contiene una dimensione etica, e persino spirituale, essenziale senza necessariamente diventare una nuova religione. Con un libro agile e in felice dialogo con la dottrina cattolica, Serge Latouche torna a occuparsi della prediletta teoria della decrescita, invitando a rovesciare e desacralizzare l'ideologia del profitto a tutti i costi. "Come reincantare il mondo" è un piccolo trattato per combattere la religione del denaro, e un appello per un nuovo modello di società.
Migranti e relitti si inabissano ogni giorno nei nostri mari, con una progressione da ecatombe. I «naufraghi dello sviluppo» di cui Serge Latouche parlava ventisei anni fa, quando uscì la prima edizione del libro, divenuto un classico della decrescita, adesso hanno i volti degli oltre quindicimila esseri umani già risucchiati in cimiteri d'acqua. Non accade spesso che espressioni metaforiche - il naufragio, gli approdi dei sopravvissuti - si inverino tragicamente, sacrificando il possibile che racchiudevano alla realtà peggiore. Un esito tuttavia non imprevisto, quantomeno da parte di Latouche, che nel momento in cui l'Occidente presagiva i trionfi dell'incipiente globalizzazione consegnava a queste pagine un'analisi senza scampo della logica produttivistica e delle sue conseguenze nefaste, e al contempo si congedava dai miti messianici del terzomondismo. Ciascuna osservazione di allora conserva una «terribile attualità» ed è traducibile alla lettera nelle parole-chiave degli odierni obiettori di crescita, se si sostituiscono sviluppo con crescita e doposviluppo con decrescita. Spinti ai margini di tutto dalla tracotanza della modernità, i «naufraghi» raccolgono i Quarti Mondi degli esclusi dei Paesi ricchi e di quelli meno avanzati, e le minoranze autoctone a rischio di deculturazione. La loro forma di resistenza è affidata per intero alla «nebulosa dell'informale», ossia a pratiche economiche atipiche che generano reciprocità in quanto fatti sociali totali, secondo criteri estranei alle categorie del dinamismo industriale. Dai loro fragili laboratori di decrescita non nascono infatti né un capitalismo scalzo né uno sviluppo alternativo, ma prende vita quell'alternativa allo sviluppo che forse sarà in grado di scongiurare la catastrofe.
Gli sbandieratoci del produttivismo e dello sviluppismo - anche nella versione contrabbandata per "verde" o sostenibile - vorrebbero accreditare un'immagine settaria e marginale degli obiettori di crescita: un manipolo di utopisti tardomoderni con l'ossessione recessiva di far cambiare rotta alla civiltà. Ma la logica trionfante del "cresci o muori" non può certo invocare maggior realismo, proprio quando si profila lo schianto del pianeta sotto il peso ecologicamente e socialmente funesto di iperproduzione, iperconsumo e iperscarto. Quell'insensatezza che oggi è diventata sinonimo di catastrofe viene da lontano, come chi in ogni tempo ne ha denunciato le storture che già si annunciavano mortifere. Si tratta di filosofi, poeti, economisti, romanzieri, politici, teologi, di cui Serge Latouche fa qui l'appello in quanto precursori, pionieri e compagni di strada. Tutt'altro che gracile, l'albero genealogico della decrescita vanta il fior fiore del pensiero critico e della sapienza di diversi continenti, configurando una storia delle idee alternativa. In felice promiscuità vi prendono posto cinici, epicurei e buddhisti zen, decrescenti di città e decrescenti di campagna, mistici e anarchici naturisti, oppositori dell'industrialismo agli albori e antiglobalisti attuali.
L'insostenibilità congiunta di pessime pratiche e mezzi fittizi per contrastarle ha trovato in Serge Latouche un analista affilato e conseguente, determinato a snidare l'impostura economica ovunque si rintani, nelle parole e nelle cose. Latouche addita il nostro vizio capitale nel vivere irresponsabilmente all'insegna dell'eccesso. Troppo di tutto: troppa produzione, troppo consumo, troppa rotazione dei prodotti, troppa obsolescenza, troppo scarto; e, insieme, troppa disuguaglianza, troppa disoccupazione, troppo saccheggio di risorse naturali, troppo inquinamento di ogni genere (biochimico, mentale, visivo, acustico). Ma a essere tossica, senza appello, è la nozione stessa di crescita ovunque si sia incarnata, nell'ultraliberismo del capitale globalizzato o nel produttivismo del socialismo reale. Dopo il fallimento delle politiche sviluppiste, anche nella versione cosiddetta "sostenibile" - ultimo, pericoloso abbaglio, secondo Latouche -, ci resta un'unica alternativa, ossia l'utopia concreta di una società governata da una logica di decrescita, che alleggerisca l'impronta ecologica, metta fine alla predazione, stringa un rapporto di parternariato con il Sud del mondo, rivitalizzi gli aspetti conviviali dell'esistenza. Un vagheggiamento irrealizzabile? Nient'affatto. Fino a che non imboccheremo la strada della decrescita serena, l'eccesso di benessere continuerà a coincidere con l'eccesso di malessere.
I saperi che si ammantano di scientificità nascondono talora un cuore di fede, l'adesione ottenebrante a un credo. Serge Latouche l'ha scoperto quando era un giovane economista allevato alle dottrine sviluppiste e da allora non ha smesso di sfatare la religione secolare che si annida nella scienza economica. In queste tre conversazioni - con Thierry Paquot, Daniele Pepino e Didier Harpagès - Latouche per la prima volta racconta ampiamente di sé, di come sia diventato "ateo" e abbia concepito l'idea sociale della decrescita: le erranze della vita e del pensiero, tra Francia, Africa e Oriente, il terzomondismo, i compagni di strada, la svolta verso un'ecologia politica, la determinazione a opporsi dal basso all'incultura dell'iperproduzione e dell'iperconsumo, il conio di espressioni ormai adottate da ampi movimenti, come "decrescita serena" e "abbondanza frugale". Se i dogmi tossici dello sviluppo a ogni costo hanno spalancato l'abisso di una crisi senza fine, l'alternativa radicale secondo Latouche è uscire dall'economia, nelle pratiche e nell'immaginario. Il solo modo, per lui e per tutti gli obiettori di crescita, di recuperare una prosperità non mercantile ma relazionale.
Stampanti bloccate a orologeria, dopo diciottomila copie, o computer fuori uso allo scadere dei due anni: non siamo di fronte a una strana moria elettronica degna della fantascienza, bensì alla manifestazione più recente di un fenomeno che è parte integrante della società della crescita. Si chiama "obsolescenza programmata" e fa sistema con il nostro modo di produrre, di consumare, di pensare, di vivere. Significa che gli oggetti messi in vendita hanno una fragilità calcolata, tanto che la durata della garanzia coincide spesso con la loro vita effettiva. Impossibile ripararli. Vanno gettati e subito sostituiti con altri, ancora e ancora. Di questa illimitatezza malata, che ci avvolge sempre più nella spirale di iperproduzione, turboconsumo e immane scarto, Serge Latouche è l'oggi l'accusatore più conseguente. Con la sua capacità di infilzare le storture di un'economia di catastrofe, mette in sequenza gli antecedenti storici e fraudolenti dell'"usa e getta", ne smaschera la logica simbolica e indica una via d'uscita: una prosperità senza crescita, prospettiva frugale ma non pauperista che sappia decolonizzare la mente dall'imperialismo delle merci, e riprenda il passo umano della durevolezza, della riparabilità e del riciclaggio.
Sfidare i limiti è l'imperativo del nostro tempo. Forzare il possibile, passare il segno, trasgredire in senso etimologico. Destino paradossale, quello delle parole. In nome della trasgressione appena ieri ci si faceva beffe dei divieti imposti per via autoritaria e del perbenismo, si aspirava all'equità sociale. Secoli prima, grandi movimenti di pensiero avevano ingaggiato battaglia con i valori tramandati, e inaugurato così la modernità. Ma l'"andare oltre" di oggi è l'emblema del dominio, perché si annida in un modello di sviluppo planetario che rispetta una sola regola: ignorare ogni confine naturale, geopolitico, etico, antropologico e simbolico, assimilandone l'idea stessa a remora passatista di cui liberarsi per aprire ai mercati. Il peccato di dismisura, sanzionato con severità dagli antichi, si è rovesciato in precetto; il furore prometeico ha sopravanzato lo spirito di sovversione. Serge Latouche non ci sta. Da anni elabora il progetto di un'alternativa praticabile al binomio crescita-illimitatezza. Si chiama decrescita e il suo concetto strategico è limite. Sinonimo di privazione in una prospettiva sviluppista, il limite appare qui come il vero punto di forza che può trattenerci dal baratro. Alla tracotanza autodistruttiva dell'universalismo liberoscambista e alla pervasività delle sue invarianti culturali, Latouche contrappone le eco-compatibilità, le sovranità circoscritte, le identità plurali, i legami che creano società.
Che cos'è mai l'abbondanza frugale, oltre a un ossimoro che lega provocatoriamente due opposti, a un'ennesima parola d'ordine suggestiva e impraticabile? Se qualcuno replicasse così alla prospettiva di una convivenza capace di sobrietà non punitiva, verrebbe preso sul serio da Serge Latouche, e contraddetto con ottime ragioni. Agli argomenti di chi dissente da lui e dagli altri, sempre più numerosi, "obiettori'di crescita", il maggior teorico della decrescita dedica questo libro, ormai necessario dopo anni di malintesi, resistenze, travisamenti strumentali, accese controversie. Gli sviluppisti incrollabili, o gli scettici poco inclini a dar credito alle logiche antieconomiche, troveranno qui il repertorio delle loro tesi e delle loro perplessità, smontate una a una. Sarà difficile continuare a sostenere con qualche fondatezza che la decrescita è retrograda, utopica, tecnofoba, patriarcale, pauperista. La crisi devastante che stiamo vivendo la indica invece come l'uscita laterale dalla falsa alternativa tra austerità e rilancio scriteriato dei consumi. Un'abbondanza virtuosa, ci avverte Latouche, è forse l'unica compatibile con una società davvero solidale.
La felicità in un mondo con risorse limitate: meno consumi materiali e più ricchezza interiore, meno «ben essere» e più «ben vivere», ecco l’«utopia concreta» che ha fatto del “Breve trattato sulla decrescita serena” un caso editoriale in Europa. Dopo “Breve trattato sulla decrescita serena” Latouche riprende in questo libro la sua riflessione sulla necessità di abbandonare la via della crescita illimitata in un pianeta dalle risorse limitate. Non si tratta, a suo giudizio, di contrapporre uno sviluppo “buono” a uno “cattivo”, ma di uscire dallo sviluppo stesso, dalla sua logica e dalla sua ideologia. Per questo è innanzitutto necessario «decolonizzare l’immaginario», cambiare la propria visione del mondo. E la scuola, l’educazione è dunque un terreno di lotta privilegiato. La crisi stessa dello sviluppo e della crescita può essere una «buona notizia», se servirà ad aprire gli occhi sulla insostenibilità del «progresso» che l’Occidente ha realizzato fin qui. Per Latouche, infatti, la via della decrescita serena passa in primo luogo per una presa di coscienza del fatto che lo sviluppo è un’invenzione dell’uomo, e che il rapporto tra uomo e natura può essere rimodellato in una dimensione «conviviale», rispettosa della legge dell’entropia e finalizzata alla felicità piuttosto che all’appropriazione delle cose.
il contenuto
Dall’autore del Breve trattato sulla decrescita serena, ecco un saggio di interrogazione radicale sul terreno di una delle «invenzioni» cruciali della modernità.
Come si è formato il nostro «immaginario economico », la nostra visione economica del mondo? Perché oggi vediamo il mondo attraverso i prismi dell’utilità, del lavoro, della concorrenza, della crescita illimitata? Che cosa ha portato l’Occidente a inventare il valore produttività, il valore denaro, il valore competizione, e a costruire un mondo in cui nulla ha più valore, e tutto ha un prezzo?
Serge Latouche ritorna qui alle origini di questa economia che i primi economisti definivano la “scienza sinistra”, e articolando la sua argomentazione in prospettiva storico-filosofica, mostra come si è plasmata la nostra ossessione utilitarista e quantitativa, e ci permette così non solo di gettare uno sguardo nuovo sul nostro mondo, ma soprattutto di affrontarne la sfida sul piano di valori davvero fondamentali come libertà, giustizia, equità.
l'autore
Serge Latouche, professore emerito di scienze economiche all’Università di Paris-Sud, è specialista dei rapporti economici e culturali Nord-Sud e dell’epistemologia delle scienze sociali