«Che bello non essere di professione critico d'arte, ma andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni, e dir sciocchezze» proclama Manganelli nell'affrontare la pittura del Pitocchetto. In effetti, sarebbe arduo ravvisare in lui la serietà benpensante dello specialista: diffida dei musei, frutto di «una macchinazione, una prepotenza, una frode»; dichiara che allestire una pinacoteca «non è più sensato che fare abitare tutti i Giuseppe in un solo quartiere di una città»; e lascia trapelare che ai quadri, riflesso della «mentita consistenza» del mondo, preferisce talora i disegni, appartenenti «al luogo discontinuo dei fantasmi». Ma non ci si deve ingannare: l'«incompetenza» autorizza a essere imprecisi, emotivi, irresponsabili - esattamente ciò che permette alla critica di condividere la natura misteriosa, elusiva, notturna della letteratura. Non a caso nel 1977 Manganelli ha precisato che «lo scrittore è colui che è sommamente, eroicamente incompetente di letteratura». I saggi qui riuniti saranno allora letteratura generata dall'arte - o meglio dalle arti, visto che le sue predilezioni si estendono dalle statue stele lunigianesi, «feti di dèi», all'amata pittura del Seicento e agli amici come Toti Scialoja, fino agli ex voto e alle libellule-mascotte di Lalique, numi tutelari del viaggio. E proprio in quanto letteratura, svincolata da gravami disciplinari, questi scritti riescono a sovvertire ogni idea sull'arte e a insegnarci una nuova grammatica della visione. Come quando, a proposito dei Mangiatori di patate di Van Gogh, leggiamo: «Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità; e hanno la forma sgraziata e concentrica del mondo».
Concupiscenza libraria ce lo ha confermato: la recensione, «minimo mostriciattolo», può trasformarsi in una magnifica narrazione che ha come personaggi «le parole di un libro», in letteratura sulla letteratura o, se vogliamo, in uno specifico genere letterario, magari ambiguo, arbitrario, «impuro», persino irresponsabile, ma capace di svelare quell’«immagine segreta», quello «strato sotterraneo» in cui risiede la grandezza di un libro. Occorre, certo, che il recensore sia un «animale passionale» e soprattutto uno scrittore, giacché «recensire è scrivere». Inveterato bibliomane, Manganelli ha frequentato i più diversi autori: ma a quali in particolare riservava la sua devozione? Quali considerava «complici di libertà»? E ancora: quale idea della letteratura tale costellazione proietta? Lo scopriremo grazie a questa raccolta, che completa Concupiscenza libraria: «... è una prima approssimazione di ciò che cerco: un luogo insieme notturno e labirintico» leggiamo a proposito di Borges. Un luogo unico, dunque, irripetibile, inimitabile: un «incantesimo che agisce in guise occulte tanto che il così detto scrittore non ne sa, non ne saprà mai nulla». Esattamente ciò che troviamo in Dickens, Yeats, Savinio, Nabokov, Borges, Landolfi, Calvino, Calasso. Qualcosa di oscuro, elusivo, enigmatico, lontano anni luce dal «languore affettuoso», dal compiacimento di certi autori pensosi, virtuosi e saggi: «Ora, non è facile tollerare un saggio, non è facile lottare con un uomo comprensivo e antico:» ammette riferendosi a Carlo Levi «ma almeno in letteratura, si può».
Questo romanzo, l’ultimo scritto da Giorgio Manganelli prima della morte nel 1990, è tutto una visione corrusca, l’allucinazione di un teologo, la ricognizione di un luogo «in cui è difficile entrare e impossibile uscire». Questo luogo è detto «la palude definitiva», ma non ha altro nome. Vi entra chi ha commesso una colpa, ma non sa quale. A mano a mano che seguiamo il narratore e il suo cavallo, che si svelerà importante personaggio, inoltrandoci in questa terra «torbidamente viva», ci accorgiamo che siamo risucchiati in un vortice metafisico, nella creazione di un demiurgo maligno. E ci viene da pensare che Manganelli abbia qui voluto raccontare il luogo stesso della sua immaginazione, luogo «sommamente rischioso», enigmatico, «ripugnante e fascinoso», dove si svolge un’avventura solitaria ed estrema, quel luogo di confìne fra molti mondi che fu la «misteriosa, taciturna patria» di questo grande visionario.