Poeta dotto, che riassume la tradizione elegiaca latina, che si colloca all'insegna di Boezio, e che ha assimilato la cultura biblica e cristiana al punto di utilizzarne espressioni e frasi, Massimiano «recepisce e interiorizza il cosiddetto "pessimismo greco", che trova la sua espressione nelle parole del satiro Sileno, secondo il quale la cosa migliore per l'uomo è non essere nato e, una volta nato, morire presto. Il non essere è l'unico modo per sottrarsi all'infelicità che appartiene all'essere, anche e soprattutto nella vecchiaia, l'esperienza più tragica della vita». Se le figure femminili - Licoride, Aquilina, Candida e la Graia puella - si situano al centro delle "Elegie", è "Senectus" la vera donna alla quale Massimiano soggiace come un amante alla propria Dama. Realista a oltranza, egli non rifugge dalle immagini più forti e più crude. Scrittore latino nell'Italia ostrogota del VI secolo, Massimiano è il poeta della senescenza: dell'uomo e dell'intero mondo antico.
Le quarantuno dissertazioni filosofiche di Massimo di Tiro offrono una visione privilegiata della cultura imperiale del II secolo d.C., epoca in cui domina l'eleganza stilistica, e anche la filosofia non disdegna di dispiegare i propri contenuti mediante il "bello stilo" dello strumento retorico, giacché il vero retore è «l'alleato del discorso filosofico» (Diss. 25, 6). Nello svolgimento dei temi, per lo più platonici nell'ispirazione e orientati ad argomenti presenti nel dibattito del tempo, senza esclusione di altre influenze filosofiche, Massimo di Tiro si mostra pensatore dalla non banale semplicità. Muovendosi con agile padronanza fra filosofia e letteratura, fra Platone e Omero, calibra con sapienza l'erudizione sul filtro di un'esigenza educativa di ampio respiro.