Questo libro non è un catalogo di storie esemplari. È invece una sequenza di vicende che più normali di così non potrebbero essere. Dentro queste pagine ci sono persone che dovreste e potreste conoscere perché camminano per le stesse strade dove camminiamo tutti e tutte, fanno le stesse cose che facciamo noi e a qualunque sguardo superficiale apparirebbero del tutto prive di quella misteriosa luce di predestinazione che dovrebbe distinguere una persona speciale dalla massa di chi speciale non è. Sono tutte storie così, semplici al punto che brillano solo se qualcuno se ne accorge e le racconta, e hanno protagonisti con nomi comuni.
Forse sono di là, forse sono altrove. In genere dormono quando il resto del mondo è sveglio, e vegliano quando il resto del mondo sta dormendo. Sono gli sdraiati. I figli adolescenti, i figli già ragazzi. Michele Serra si inoltra in quel mondo misterioso. Non risparmia niente ai figli, niente ai padri. Racconta l'estraneità, i conflitti, le occasioni perdute, il montare del senso di colpa, il formicolare di un'ostilità che nessuna saggezza riesce a placare. Quando è successo? Come è successo? Dove ci siamo persi? E basterà, per ritrovarci, il disperato, patetico invito che il padre reitera al figlio per una passeggiata in montagna? Fra burrasche psichiche, satira sociale, orgogliose impennate di relativismo etico, il racconto affonda nel mondo ignoto dei figli e in quello almeno altrettanto ignoto dei "dopopadri". "Gli sdraiati" è un romanzo comico, un romanzo di avventure, una storia di rabbia, amore e malinconia. Ed è anche il piccolo monumento a una generazione che si è allungata orizzontalmente nel mondo, e forse da quella posizione riesce a vedere cose che gli "eretti" non vedono più, non vedono ancora, hanno smesso di vedere.
S'innamorano di una sagoma di cartone o di un pretoriano in miniatura, odiano i bambini pur portandoseli in grembo, lasciano una donna ma ne restano imprigionati, vomitano amore e rabbia, si tagliano, tradiscono, si ammalano. Sono alcuni dei personaggi del nuovo libro di Michela Murgia, un romanzo fatto di storie che si incastrano e in cui i protagonisti stanno attraversando un cambiamento radicale che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva. "Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita." A volte a stravolgerla è un lutto, una ferita, un licenziamento, una malattia, la perdita di una certezza o di un amore, ma è sempre un mutamento d'orizzonte delle tue speranze che non lascia scampo. Attraversare quella linea di crisi mostra che spesso la migliore risposta a un disastro che non controlli è un disastro che controlli, perché sei stato tu a generarlo. In stato di grazia, Murgia scrive per tutti noi un libro estremamente originale che rimanda a una costellazione di altri grandi libri: Il crollo di Fitzgerald, Lo zen e il tiro con l'arco di Herrigel e L'anno del pensiero magico di Didion.
Siamo all'inizio degli anni Settanta, a Castroianni, un piccolo paese della Sicilia che, per mancanza di litio nell'acqua corrente, registra il più alto tasso di pazzi di tutta la provincia. Dal momento che la locale sezione della Democrazia Cristiana (ma il litio non c'entra) è sospettata di reggersi su un tesseramento fasullo, viene mandato da Roma il funzionario torinese Graziano Bobbio per indagare sui brogli. Presa dallo sconforto Rosalia Calì - la ricca e avida "Sindachessa", che fino a quel momento ha gestito indisturbata una redditi- zia attività di mazzettara - per salvare la poltrona del segretario politico e con quella anche la sua di sindaco, forzando la sua natura intrinsecamente frigida, si costringe a sedurre il polentone. Il piano funziona. L'imbroglio sul tesseramento viene coperto. E in meno di tre mesi i due convolano addirittura a nozze - complice anche la dote di novanta ettari di terreno, grazie alla quale "il polentone" conta di dimenticare il misero stipendio da funzionario. Ma le cose si complicano quando il novello "signor Calì", per sfuggire alla insoddisfacente vita matrimoniale, si trasferisce in campagna, dove trascorre il tempo con Tatano, suo ex commilitone, e con Celestina, bella ventenne nota per le sue esagerate prodezze sessuali. E mentre tutti in paese cominciano a spettegolare sui loro rapporti, arriva il colpo di scena: "il polentone" è stato rapito e per pagare il riscatto la moglie dovrà scucire tutte le mazzette faticosamente conquistate a suon di appalti.
Colto e citazionistico, ma immediato alla lettura, autobiografico e "vero" nei contenuti. Romantico e sentimentale nella tonalità di fondo, ma attraversato da un'ironia che si incastona negli snodi strutturali del libro, oltre che nelle sue pieghe più visibili. Testimonianza di un'ossessione privata, ma anche lucida analisi dei mostri che possono dominare la mente dell'uomo.
È una strana forma di letargia quella che coglie all'improvviso gli abitanti di via Cadorna, dove i più anziani sprofondano a turno in un sonno che dura ventiquattr'ore e poi svanisce senza lasciare traccia. Qui, in un piccolo borgo della campagna fiorentina alla metà degli anni Sessanta, vive Giulio, il nipote del dottore del paese. Giulio ha sedici anni e ne dimostra la metà. Non si muove e non parla. Si definisce «un coso che ha due braccia e due gambe, ma non funziona a». È tetraplegico. Immobile nel suo lettino, Giulio osserva, rielabora gli scampoli di vita che gli capitano a tiro, intercetta parole e reinventa l'esistenza a modo suo. Insieme alle ipotesi che via via si dipanano sui motivi della letargia, Giulio racconta di sé e della sua famiglia - il nonno autoritario, il padre indolente, la madre a caccia di sogni - da cui emerge un quadro strampalato dei normali, «gli esseri più misteriosi e più scontenti di tutti», messi straordinariamente a fuoco da chi normale non è, anzi si vede affibbiato l'epiteto di infelice. Improvvisamente per Giulio si apriranno le porte di un mondo nuovo e inaspettato grazie a uno dei medici che giravano per i paesi alla ricerca dei piccoli pazienti invisibili: un dottore alla rovescia ispirato alla figura di Adriano Milani, fratello di don Lorenzo, che a lungo si batté perché la sanità restituisse a questi bambini dignità di persona. La scrittura di Michele Cecchini, lieve e insieme cruda, invita a entrare con coraggio nei pensieri e nell'universo di chi non ha voce. Una fiaba senza fiabesco, dal tono mai patetico e a tratti scanzonato. L'esistenza raccontata da un bambino che non ha alcuna intenzione di rinunciare alla felicità e si lascia «amare dalla vita come viene viene».
Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva. Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti «dovremmo dire anche farmacisto». Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta. Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un'ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno.
Dieci storie di donne anticonformiste, scomode, spesso antipatiche, rivoluzionarie. Nel ciclo arturiano Morgana è la sorella potente e pericolosa del ben più rassicurante re della spada magica. Ed è la madrina ideale delle donne scelte in questo libro: da Vivienne Westwood, stilista che ha rivoluzionato il mondo della moda, all'ex pattinatrice Tonya Harding, da Shirley Temple alle sorelle Brontë, a Marina Abramovic, Santa Caterina, Moana Pozzi, Moira Orfei, Grace Jones e Zara Hadid. Nessuna di queste è una donna esemplare, nessuna incarna la natura gentile e sacrificale del femminile. Sono anzi streghe per le donne stesse, irriducibili anche agli schemi della donna emancipata e femminista di oggi. Il nemico simbolico di questa antologia è l'idea - sottilmente misogina - che le donne siano migliori in quanto tali. In una narrazione simile non c'è posto per la dimensione oscura, aggressiva, vendicativa, caotica ed egoistica che invece appartiene alle donne tanto quanto agli uomini. Nelle pagine di questo libro è nascosta silenziosamente una speranza: che ogni volta che la società ridefinisce i termini della libertà femminile, arrivi una Morgana a spostarli ancora e ancora, finché il confine e l'orizzonte non saranno diventate la stessa cosa.
Si chiama Emilio Cacini ma tutti lo conoscono come Soldo di Cacio perché è basso e goffo. La sua vita è sempre stata una storia semplice, di quelle senza aneddoti. Cacio è un uomo mite, insegna educazione artistica alle scuole medie e vive a Livorno, nel rione di Ardenza Mare. Da sempre coltiva la passione per le immagini, tanto che spesso associa le situazioni che vive ai dipinti dei suoi pittori preferiti. Vorrebbe tanto rivelare il suo segreto, che riguarda la relazione clandestina con Ilaria, una donna con un passato da brigatista, ma nessuno glielo chiede. Cacio ha un figlio, Pitore, un bambino che parla una lingua tutta sua, fatta di parole incomprensibili, inventate: folmedina, parassonio, golbetico... Cacio sembra non farne un dramma e anzi si impegna a trovare forme di comunicazione alternative alle parole, nel tentativo di stringere un legame sempre più forte con suo figlio. Seppure disorientato, Cacio ha un mondo dentro di sé e va per la sua strada, ed è una strada gentile e allo stesso tempo forte nel passare attraverso la solitudine e nel creare armonia dalla disarmonia da cui si sente circondato. Nel tentativo di trovare una autenticità che vada al di là delle parole, Cacio sembra dire che il mondo può essere in tanti modi differenti, basta sapere inventarlo.
Furibondo per la bocciatura di un suo brillante progetto di legge, Attilio abbandona la carriera politica e si ritira in montagna, tra boschi e trattori. Condivide le sue giornate con la piccola comunità agreste che lo circonda: la vita all'aperto è la sua guarigione. Ma i ricordi incombono. Hanno la forma immateriale dei rapporti personali irrisolti, delle parole sprecate in televisione, delle occasioni perdute quando viveva in società. E hanno l'ingombro fisico degli oggetti che il passato ha accumulato attorno a lui. Casse e casse di libri, lettere, fotografie, documenti, mobili tarlati, cianfrusaglie. Il canapè di zia Vanda, liso e minaccioso, è il condottiero indiscusso di quello che Attilio considera un esercito invasore. Vorrebbe liberarsi di quelle cataste e comincia a progettare roghi, per ridurre in cenere il lascito delle vite altrui. Sogna leggerezza, un cammino più spedito, più libero, sollevato dal ricatto della memoria. Fatalmente, brucerà quello che non avrebbe dovuto bruciare, in un finale di partita segnato dal classico colpo di scena e dominato dalla presenza delle donne: una moglie sempre in viaggio, la sorella femme fatale, la vicina di casa bulgara. Attraverso l'eroe attaccabrighe e insofferente del romanzo, Michele Serra guarda allo spirito dei tempi facendone emergere la rabbia, l'inconcludenza, la comica mediocrità. Ma anche le piccole illuminazioni che salvano la vita.
«Essere democratici è una fatica immane. Significa fare i conti con la complessità, fornire al maggior numero di persone possibile gli strumenti per decodificare e interpretare il presente, garantire spazi e modalità di partecipazione a chiunque voglia servirsene per migliorare lo stare insieme. Inoltre non a tutti interessa essere democratici. A dire il vero, se guardiamo all'Italia di oggi, sembra che non interessi più a nessuno, tanto meno alla politica. Allora perché continuiamo a perdere tempo con la democrazia quando possiamo prendere una scorciatoia più rapida e sicura? Il fascismo non è un sistema collaudato che garantisce una migliore gestione dello Stato, meno costosa, più veloce ed efficiente?». Michela Murgia usa sapientemente la provocazione, il paradosso e l'ironia per invitarci ad alzare la guardia contro i pesanti relitti del passato che inquinano il presente. E ci mette davanti a uno specchio, costringendoci a guardare negli occhi la parte più nera che alberga in ciascuno di noi.
Anno del Signore 1469. Una tempesta è in arrivo su Firenze, prestigioso crocevia di artisti e mercanti: dopo la morte di Cosimo, carismatico patriarca della potente famiglia Medici, un attentato alla vita di suo figlio Piero ne scoperchia gli inquietanti segreti. Lorenzo, il giovane nipote di Cosimo da sempre destinato a raccoglierne l'eredità spirituale, si trova costretto ad assumersi gravi responsabilità prima del tempo e a dover maturare in fretta l'abilità e la malizia necessarie per confrontarsi con i sotterfugi e le macchinazioni che regolano il grande gioco del potere. L'ascesa e l'affermazione dei Medici come una delle casate più influenti della Repubblica si sono rivelate un magnete di invidie e rancori, e una rete di intrighi si infittisce sempre più intorno alla famiglia di Lorenzo. Al proprio fianco, il giovane avrà alcune tra le menti più illuminate della sua epoca, lo splendore dell'arte di maestri immortali e l'amore contrastato di due donne straordinarie e molto diverse tra loro, mentre insieme a suo fratello e ai propri alleati si ritroverà ad affrontare nemici senza scrupoli, tradimenti, duelli e una delle più terribili congiure mai ordite. Toccherà proprio a Lorenzo il difficile compito di mostrarsi all'altezza della profezia del nonno Cosimo, per salvare il futuro dei Medici ma soprattutto per guidare Firenze - e il mondo insieme a lei - verso l'era luminosa del Rinascimento, guadagnandosi il titolo con cui la storia ce l'ha consegnato: quello di Magnifico.