Oggi in Italia tutti hanno una ricetta in tasca per avvicinare gli italiani all'arte. Si tratta spesso di ricette a base di usurate pratiche di marketing, che dovrebbero far digerire Botticelli, come uno zuccherino aiuta a buttar giù la medicina amara, a cittadini considerati soltanto orde di consumatori inconsapevoli e irredimibili. Il risultato è desolante: ammesso (e per nulla concesso) che questa spintissima mercificazione serva a vendere qualche biglietto in più, è certo che non alimenta in alcun modo il nostro dialogo con l'arte. E se invece la ricetta fosse molto più semplice e rispettosa dell'intelligenza di ognuno di noi? Montanari traccia in queste pagine agili e appassionanti una possibile via per un'educazione artistica che sia anche educazione sentimentale e civica. E ci accompagna tra le strade del bello, dove alto e basso si mescolano, dove contemporaneo e classico sono parte di un unico grande discorso, che parte dalle mani impresse sulla roccia in una caverna e arriva a Banksy, passando per Raffaello, Monet, Pellizza da Volpedo e Rothko. «I monumenti ci parlano. In ogni modo provano ad attirare la nostra attenzione, implorano uno sguardo, una nostra sosta. Lo fanno perché, pur eterni o quasi, non vivono se non attraverso la vita dei vivi. Se accettiamo di far loro un po' di spazio nella mente e nel cuore, in cambio essi rendono più intensa, più profumata, più profonda la nostra vita. Temo che nessun produttore o responsabile di rete lo accetterebbe, ma il programma televisivo che davvero vorrei realizzare consisterebbe in una lentissima camminata in una qualunque chiesa storica del nostro Paese: e invece di fermarmi a far due chiacchiere con i passanti e i conoscenti, mi fermerei a leggere ogni lapide. Ognuno di quei brevi testi ha il potere di convocare davanti ai nostri occhi uomini e donne, eventi e pensieri, storie e vite di dieci secoli, e oltre. Dalla più sperduta chiesa si stende una rete di storie che avvolge l'Europa o il mondo interi, capace di farci sprofondare nei recessi intimi della nostra comune umanità».
Gian Lorenzo Bernini non ha un posto nella genealogia dell'arte moderna: quella che parte dalla rivoluzione di Caravaggio, e attraverso Velázquez, Goya e Manet, conduce agli Impressionisti, e dunque alle avanguardie. L'artista più potente, ricco e realizzato dell'Italia secentesca, "il dittatore artistico di Roma", è sempre stato considerato troppo organico alla propaganda dei papi e dei gesuiti per poter aver parte in questa storia di libertà. Basandosi su oltre vent'anni di ricerca, e ribaltando la lettura corrente di opere, fonti e documenti, questo libro dimostra il contrario: a modo suo, Bernini ha seguito Caravaggio sulla via del conflitto, arrivando a sacrificare una parte del proprio successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte. Ed è anche grazie a questa tensione che le opere di Gian Lorenzo ci appaiono ancora così terribilmente vive. Bernini seppe uscire dalle regole, pagandone tutte le conseguenze e facendo leva sul giudizio di un'embrionale opinione pubblica europea per affrancarsi dall'arbitrio dei principi. Le sue mani e la sua testa divennero l'unica misura che accettava, e il suo atelier fu insieme luogo della creazione e teatro della libertà. Ma come dimostrare questa tesi? Nelle sue biografie "ufficiali" affiorano cospicue smagliature, fra loro coerenti, che questo libro individua e allarga, una per una. Costruendo così per le opere di Bernini una nuova chiave di lettura.
C'è un'idea - di casa persino al ministero dei Beni culturali italiano in questi anni - secondo cui l'Italia potrebbe diventare una grande «Disneyland culturale»: ma è davvero a questo che serve il tessuto artistico e paesaggistico che abbiamo ereditato e che stiamo rovinando?
Per rispondere, si può partire dalla storia di un crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato dal governo Berlusconi per piú di tre milioni di euro: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell'inadeguatezza degli storici dell'arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del perverso sistema delle mostre, del miope opportunismo dell'università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione.
Il degrado del ruolo della storia dell'arte nel discorso pubblico accompagna la metamorfosi del ruolo del patrimonio storico e artistico: da gratuito strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, a parco dei divertimenti a pagamento.