Erwin Panofsky - per unanime giudizio uno dei più grandi critici d'arte del Novecento - affronta in questo saggio del 1961 uno dei gioielli artistici del tardo Rinascimento, la «Camera del Correggio» nel monastero di San Paolo a Parma. Pochi anni prima, nel 1958, si era cimentato nell'impresa Roberto Longhi, e anche il suo magistrale saggio (Correggio) è pubblicato in questa stessa collana. Il dialogo a distanza tra questi due grandi è entusiasmante. Due metodi, due sistemi euristici si confrontano e si affrontano. Panofsky analizza il capolavoro del Correggio collezionando indizi e prove documentarie, ispezionando le fonti letterarie e iconologiche, quale premessa per la decifrazione del complesso sistema di immagini. Longhi si era invece immerso nella psicologia dell'opera, fa coincidere la sua «prosa d'arte» con il pensiero che sta dietro le immagini, restituisce l'artista all'epoca in cui ha vissuto. Ma al di là delle sostanziali differenze, soprattutto una cosa accomuna i due saggi: l'eccellenza, il magistero critico, l'aristocrazia dello spirito.
"Il fenomeno artistico, se dev'essere compreso veramente nella sua compiutezza e nella sua peculiarrtà, affaccia di necessità una duplice pretesa: da un lato di venir compreso nella sua condizionatezza, ossia di essere inserito nel nesso storico di causa ed effetto; dall'altro di essere compreso nella sua assolutezza, ossia di essere sottratto al nesso storico di causa ed effetto e di venir inteso, al di là della relatività storica, come una soluzione, estranea al tempo e al luogo, di un problema che è estraneo al tempo e al luogo. In ciò consiste la peculiare problematiea di qualsiasi indagine che rientri nelle scienze dello spirito, ma insieme la sua peculiare attrattiva: 'due debolezze' dice una volta Leonardo parlando degli archi in architettura 'insieme costituiscono una forza'".
"Attraverso la trasposizione dell'oggettività artistica nel campo del fenomenico, la concezione prospettica sbarra ogni accesso per l'arte religiosa alla regione del magico, nel cui ambito l'opera stessa compie il miracolo, e nella regione del dogmatico e del simbolico, nel cui ambito l'opera testimonia, o preannuncia, il miracolo. Ma dischiude per essa una regione completamente nuova, la regione del visionario, nel cui ambito il miracolo diventa un'esperienza immediatamente vissuta dello spettatore, poiché gli eventi soprannaturali irrompono nello spazio visivo apparentemente naturale che gli è proprio e gli permettono così di 'penetrare' realmente la loro essenza soprannaturale; inoltre la concezione prospettica dischiude all'arte religiosa la regione dello psicologico nel senso più alto, nel cui ambito il miracolo avviene ormai nell'anima dell'uomo raffigurato nell'opera d'arte; non soltanto le grandi fantasmagorie del barocco - preparate in ultima analisi dalla Sistina di Raffaello, dall'Apocalisse di Dürer e dalla pala di Isenheim di Grünewald, anzi, se si vuole, già dall'affresco di San Giovanni a Patmos in Santa Croce a Firenze, opera di Giotto -, ma anche le tarde opere di Rembrandt non sarebbero state possibili senza la concezione prospettica dello spazio, la quale, trasformando la realtà in apparenza, sembra ridurre il divino a un mero contenuto della coscienza umana, ma insieme amplia la conoscenza umana..." Con uno scritto di Marisa Dalai Emiliani.
"La scultura funeraria" è l'ultima grande opera pubblicata da Erwin Panofsky. È il frutto della rielaborazione di alcune lezioni tenute nel 1956 presso l'Institute of Fine Arts della New York University. Il successo riscosso da queste conferenze e l'insistenza di amici e colleghi convinsero Panofsky a riprendere in mano il lavoro e a trasformarlo in un testo, che vide infine la luce nel 1964. L'uomo ha sempre dovuto far fronte all'enigma e al timore della morte, ponendosi ovunque la stessa, eterna domanda: "Che ne sarà di noi dopo?". Ed è specialmente attraverso la scultura funeraria che ogni cultura esprime le diverse e innumerevoli risposte che associa alla morte. Secondo Panofsky sono due le tendenze principali: quella "retrospettiva" (che mira a perpetuare la memoria del defunto e a renderlo immortale celebrandone gesta e virtú) e quella "prospettiva" (che si rivolge piú al futuro che al passato, cercando di immaginare e soddisfare tutti i bisogni e i desideri che caratterizzeranno la vita nell'aldilà). Sulla scorta di questi due principî, Panofsky tratteggia la storia della scultura funeraria con un'ampiezza e un respiro tali da richiamare alla mente la migliore scienza dell'arte tedesca portando a sostegno della teoria una quantità straordinaria di esempi: dai cippi ai maestosi mausolei, dalle urne piú spartane ai sepolcri piú elaborati, dalle tombe dell'Antico Egitto alle Cappelle Medicee di Michelangelo e alla Beata Ludovica Albertoni di Bernini.
Con una serie di esempi illuminanti che spaziano dall'arte egizia a Poussin, attraverso il cantiere di Saint-Denis, culla del gotico ai tempi dell'abate Suger, e singoli problemi posti da opere di Dürer, Tiziano, Vasari, ecc., Erwin Panofsky ricerca il senso profondo del variare dei modi e dei metodi della figurazione. Indagando sulle vicende dei tempi e dei soggetti e sulla loro variabile fortuna, il grande studioso rintraccia le ragioni ultime delle mutazioni negli atteggiamenti mentali profondi, che hanno presieduto alla visione del mondo di una intera epoca.
In questo senso l'analisi dei singoli episodi che compongono questo volume diventa anche un paradigma interpretativo destinato a incidere profondamente sul modo di intendere la storia delle arti figurative.
Quando questi studi di iconologia uscirono nel 1939 negli Stati Uniti si imposero subito come un libro di estrema importanza, teorica e concreta, nel quadro della critica storica delle arti figurative. Si trattava, da un lato, di un testo capace di mettere a disposizione di un più largo pubblico i risultati di un lungo lavoro di ricerca e di studio degli aspetti programmatici, letterari ed eruditi dell'opera d'arte, in contrapposizione alle indagini di tipo formale degli storici dello stile; dall'altro quel libro significava una elaborazione organica dell'iconologia, come discussione sistematica di un modo di leggere il "pensiero" dell'arte e come studio dei significati propri al soggetto prescelto nella raffigurazione artistica, e quindi del contenuto storico, sociale, religioso, filosofico, culturale di cui le immagini sono diretta espressione. Una problematica che avrà grande fortuna, in particolare in Italia dove Panofsky "parve quale il liberatore della cultura storico-artistica italiana, da un lato dagli astratti distinti della storiografia di osservanza crociana, dall'altro dall'ermetismo decadente di tanta pseudo-stilistica" (Dall'introduzione di Giovanni Previtali)
Fu in Germania che, nel Quattrocento, l'invenzione della stampa, dell'incisione e della xilografia fornì al singolo la possibilità di diffondere le proprie idee in tutto il mondo. Proprio mediante le arti grafiche la Germania assurse al ruolo di grande potenza nel campo artistico, grazie principalmente all'attività di un artista che, benché famoso come pittore, divenne una figura internazionale solo per le sue doti di incisore e xilografo: Abrecht Dürer. Le sue stampe per più di un secolo costituirono il canone della perfezione grafica e servirono da modelli per infinite altre stampe, come pure per dipinti, sculture, smalti, arazzi, placche e porcellane, non solo in Germania, ma anche in Italia, in Francia, nei Paesi Bassi, in Russia, in Spagna e, indirettamente, persino in Persia. L'immagine di Dürer, come quella di quasi tutti i grandi, è cambiata secondo l'epoca e la mentalità in cui si è riflessa, ma sebbene le qualità distintive della sua innegabile grandezza furono variamente definite, questa grandezza fu riconosciuta subito e mai messa in dubbio. Lo studio di Panowsky è in questa edizione supportato da una serie di rimandi puntuali alle 325 tavole delle opere dell'artista tedesco raccolte in appendice.