Arriva nelle sale cinematografiche il film "La legge degli spazi bianchi" di Mauro Caputo, presentato alla Mostra di Venezia e ispirato al primo dei cinque racconti di questo libro. In una fredda mattina d'inverno, il dottor Fleischmann è costretto ad affrontare l'inizio di una progressiva perdita di memoria. Medico e uomo di scienza, si ritrova suo malgrado in un universo dominato dai misteriosi rapporti tra il destino e i meccanismi che regolano la vita. E giunge alla conclusione che dà il tono alla raccolta: «Tutto è scritto negli spazi bianchi. Tra una lettera e l'altra. Il resto non conta».
Nel momento in cui la Romania ancora socialista, in base a un accordo internazionale poco pubblicizzato, lo "vende" alla Germania Federale in quanto cittadino di supposte origini sassoni (ad onta delle varie versioni del suo cognome, che sembrano rimandare piuttosto all'area mediterranea), il nobile spiantato e ingegnere Ponzio Capodoglio, allampanatissimo, viene preso da un'insana mania: vuole conoscere, a tutti i costi, le proprie origini. Comincia così - in compagnia dell'enorme moglie Sieglinde e del gatto Fiocchetto di Neve, e inseguito (e talvolta preceduto) dall'ambiguo spione-letterato Negrescu -una quantità di viaggi ed esplorazioni che lo portano ai quattro angoli del mondo: rimedierà delusioni, arresti, sguaiate derisioni, espulsioni, bastonate, denunce. E alla fine concluderà che quello dell'origine altro non è che un mito maligno, foriero solo di guai. Appoggiandosi parodisticamente al "Don Chisciotte" cervantino (ma anche a Rabelais, a Sterne, a tutta la gloriosa tradizione del romanzo parossistico), Giorgio Pressburger dà vita a un romanzo turbinoso, folle e divertentissimo, nel quale sono allegramente spedite gambe all'aria tutte le convenzioni romanzesche.
Alcune raccolte di racconti, pur parlando apparentemente di storie individuali, nel loro insieme mirano a rappresentare un luogo, una città. Così per esempio Gente di Dublino di James Joyce, o le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani. Questi luoghi a loro volta sono una metafora dell’umanità, se non dell’Universo intero. Il racconto non è un genere minore, anzi. Alcuni dei libri più belli della storia della letteratura sono cresciuti proprio sul terreno del racconto. Soltanto la moda e l’editoria degli ultimi decenni hanno respinto questo genere nel reclusorio delle opere minori, se non proprio di poco valore, anche se nella nostra tradizione ci sono esempi altissimi, tra quelli di maggior rilievo della Storia della letteratura.
Che cosa desidera fare Pressburger con questi suoi racconti? La città di Trieste in sé è già stata consacrata da tempo come luogo letterario, è nota per questo - si può dire - in tutto il mondo. Quindi, con il suo inserirsi nella tradizione letteraria di Trieste, probabilmente l’autore intende dichiarare una tendenza e l’accettazione di una regola che rifiuta il ruolo di intrattenimento a costo zero. Rivendica invece quello che fino a non molto tempo fa pareva un requisito necessario: un valore diverso da quello del puro divertimento, che oggi invece pare essere l’unico elemento indispensabile. Il mondo qui rappresentato vuole scuotere il lettore dal suo torpore di indifferenza verso gli altri, mostrare quello per cui Trieste rimane ancora un posto dalla cui sofferenza e disposizione alla conciliazione con l’esistenza c’è ancora da imparare.
Giorgio Pressburger compie con questo libro un viaggio "dantesco", conducendo il lettore tra figure storiche, grandi dittatori, grandi filosofi e grandi artisti, personaggi della Divina Commedia, protagonisti della contemporaneità come il camorrista Sandokan e Nelson Mandela, figure amate e rimpiante come il nonno e il fratello Nicola... Tutte le presenze del libro vengono a costituire una galleria ricchissima e sfaccettata che impone al protagonista di ripensare alla propria vita collocandola sia all'interno della storia millenaria del popolo ebraico, sia sullo sfondo del recente "secolo breve" - quel Novecento che ha segnato la sua esistenza e che più che mai si è accanito contro i valori supremi cui Pressburger nonostante tutto crede: l'amore e la libertà. Il dialogo con i morti, la riflessione sulla storia, l'analisi critica di una realtà caotica e multiforme si risolvono in visione onirica, ma soprattutto poetica: e dichiaratamente poetica è infatti la prosa di Pressburger, scandita da spazi bianchi che accennano a un ritmo di versificazione e invitano a una lettura "inattuale", segnalando un progetto letterario contro corrente rispetto alle tendenze dominanti di questo inizio secolo.
Il libro racconta la storia di un uomo che, rimasto solo al mondo, si rivolge a una chiromante per mettersi in contatto con il padre e il fratello defunti. L'unico risultato che raggiunge è però la perdita di tutti i suoi beni, sottrattigli dalla chiromante truffatrice. In cinque anni di duro lavoro riesce a rifarsi una vita decorosa, ma l'11 agosto 1999 si ritrova, nuovamente desolato e in solitudine, ad assistere all'ultima eclissi solare del millennio. Il protagonista ricorre questa volta alla psicanalisi, avviando un percorso attraverso tutto ciò che causa il suo tormento. Nella sua coscienza il Novecento prende la forma di un inferno dantesco, popolato da persone imprigionate, uccise, torturate, costrette al suicidio: grandi e piccole figure del XX secolo che gli rivelano il segreto della loro sofferenza e morte. Insieme al dolore affiorano tuttavia anche le loro passioni, gli ideali e gli amori. Lentamente il protagonista si avvierà così verso la guarigione, finalmente intravedendo nell'ultima seduta i suoi cari: il padre, il fratello, il nonno che appaiono nella luce del sole che si sta levando.