In una lettera a Stefan Zweig, Joseph Roth annunciava di avere in cantiere «il romanzo della sua infanzia», destinato ad assumere le dimensioni di un’opera autobiografica «d’ampio respiro». E destinato, secondo l’ultima compagna dello scrittore, a diventare il suo libro più pregevole. Il progettato romanzo, in realtà, non vide mai la luce. Ma il torso che ci è rimasto, Fragole – trovato fra le carte inedite _, si presenta di fatto come un’autentica, incantevole novella. Una novella popolata di sarti, vetrai e ciabattini colti nel natio shtetl galiziano, in uno scenario fatto di distese innevate e di neri stormi di corvi sui campi dalle stoppie dure e pungenti sotto i piedi nudi. Alla ricerca della sua terra perduta _ con il sapore delle fragole di bosco che richiama un intero universo («il succo scaturiva dal frutto e la polpa molle accarezzava il palato») _, Roth riesce a salvare la memoria di una mitica Heimat, racchiudendola nel prezioso scrigno di un racconto poetico e nostalgico come una ballata yiddish. E non meno preziosa, anche se agli antipodi per ambientazione e tenore, è l’altra novella raccolta in questo volume, Perlefter, storia e satira di un borghese ipocondriaco, irresistibile antieroe che sogna avventure grandiose _ laddove le sue sono solo meschine e da tener segrete, come gli indirizzi di certe massaggiatrici che si è annotato, con abbreviazioni solo a lui intelligibili, in fondo al suo calepino, «appena sotto l’elenco delle festività ebraiche». Abitate da una galleria di personaggi degna di Gogol’ e Dickens, ambientate nella Vienna dell’ebraismo assimilato – tra café chantant, club esclusivi e sontuosi hotel _ o in lontane province trasognate, sono pagine in cui ritroveremo, con gioia, il Roth dei suoi libri più amati.
Il volume riunisce i reportages viennesi apparsi sul giornale pacifista "Neuer Tag" tra il 1919 e il 1920. Testi che compongono un caleidoscopio popolato da pescecani e profittatori di guerra, disperati regrediti all'autosufficienza come tanti Robinson Crusoe in una Vienna stremata dalla catastrofe bellica e bambini rachitici che giocano in mezzo alla strada con lo sterco dei cavalli, cambiavalute volanti e borsaneristi, caffè "à la page" e locali malfamati. Con sguardo snebbiato Roth coglie nel particolare meno appariscente il peculiare e primigenio elemento viennese, e con linguaggio immaginoso, con un parlato tutto teatrale descrive caratteri e ambienti, figure grottesche e patetiche, marionette e ombre cinesi.
Scritto nel 1937, Il peso falso appartiene, come La leggenda del santo bevitore, al periodo ultimo di Roth, nel quale i suoi scritti, pur mantenendo intatto l’impianto realistico, sembrano naturalmente riferirsi, in trasparenza, a un significato ulteriore. Così questa storia di un verificatore dei pesi e delle misure che si trova a scoprire che attorno a lui tutti i pesi sono falsi diventa un apologo sui temi perenni della giustizia, della passione e della colpa. Ma, soprattutto, in queste pagine uno sguardo chiaroveggente sembra posarsi sullo schiudersi di un mondo dove la falsificazione è la normalità stessa.
La leggenda del santo bevitore fu pubblicato per la prima volta nel 1939, pochi mesi dopo la morte di Joseph Roth, esule a Parigi – e può essere considerato, per molti versi, il suo testamento, la parabola trasparente e misteriosa che racchiude la cifra del suo autore, oggi riscoperto come uno dei più straordinari narratori di questo secolo.
Il clochard Andreas Kartak, originario come Roth delle province orientali dell’Impero absburgico, incontra una notte, sotto i ponti della Senna, un enigmatico sconosciuto che gli offre duecento franchi. Il clochard, che ha un senso inscalfibile dell’onore, in un primo momento non vuole accettare, perché sa che non potrà mai rendere quei soldi. Lo sconosciuto gli suggerisce di restituirli, quando potrà, alla «piccola santa Teresa» nella chiesa di Santa Maria di Batignolles. Da quel momento in poi la vita del clochard è tutta un avvicinarsi e un perdersi sulla strada di quella chiesa, per mantenere una impossibile parola.
È come se il clochard volesse ormai una sola cosa nella sua vita – rendere quei soldi –, e al tempo stesso non aspettasse altro che di essere sviato da innumerevoli pernod, da donne che il caso gli fa incontrare, da vecchi amici che riappaiono come comparse fantomatiche. Tutta la straziata dispersione della vita di Roth – e soprattutto dei suoi ultimi anni, quando, proprio a Parigi, trovava una suprema, ultima lucidità nell’alcool – traspare in questa immagine di un uomo ormai tranquillamente estraneo a ogni società, visitato da brandelli di ricordi, generosamente disponibile a tutto ciò che incontra – e in segreto fedele a un unico e apparentemente inutile voto.