La mattina del 5 gennaio 1895, nella piazza d'armi dell'École Militaire, il capitano Alfred Dreyfus venne degradato perché ritenuto colpevole di tradimento. La spada spezzata sul ginocchio e le spalline strappate dalla divisa cancellarono di colpo non solo una carriera militare, ma anche un sogno: quello di poter servire lealmente un Paese al quale sentiva di appartenere senza riserve. Il sogno, cioè, dell'assimilazione. Lo stesso che molti ebrei d'Europa avevano coltivato fin dall'alba dell'età moderna. Perché in Russia come in Spagna, a Praga come a Berlino, assimilazione voleva dire emancipazione e integrazione, pace e sicurezza, dopo infinite persecuzioni. E pazienza se significava anche rinunciare alla propria identità: gli ebrei lo sapevano, da sempre ai privilegi accordati avevano fatto seguito i decreti di espulsione, alle patenti di tolleranza le calunnie del sangue, all'allentamento dei divieti i pogrom. Nulla li avrebbe messi al riparo dal capriccio dei potenti o dall'odio della marmaglia, ci sarebbero stati ancora i ghetti, le caricature oscene, i pamphlet antisemiti. E poco importava che ad attaccarli fossero l'apostolo della tolleranza Voltaire, Karl Marx o Richard Wagner, o che entro la fine dell'Ottocento, molto prima del "Mein Kampf", la parola "annientamento" facesse la sua comparsa nel vocabolario dell'antisemitismo. Era sempre successo e sarebbe successo di nuovo. A meno che non si fosse trovato un posto dove stare, l'Ha-Makom, il Luogo dove sentirsi al sicuro, la patria cui appartenere. Che fosse Odessa, la città cosmopolita, o il West americano, la frontiera delle infinite opportunità, o Poh-Lin, la terra degli "shtetl", della miseria e degli "schnorrer". O piuttosto la Palestina, dove Theodor Herzl sognava di edificare lo Stato ebraico, l'unica vera salvezza per gli ebrei, il solo modo per sottrarsi al «suicidio di massa» e alle promesse, illusorie, dell'assimilazione. In questo secondo volume della sua "Storia degli ebrei", Simon Schama ci accompagna ancora una volta in un mondo di avventurieri visionari e falsi Messia, di marrani e "conversos", di donne coraggiose, mercanti e straccivendoli, di celebri compositori, pugili e banchieri cosmopoliti.
Nel giugno del 1242, a Parigi, davanti a una folla urlante e a frati raccolti in preghiera, migliaia di pergamene inchiostrate recanti lettere ebraiche arsero sulle pire scoppiettanti diffondendo lungo le rive della Senna un dolciastro fetore animale. Sui roghi, innalzati per volontà di re Luigi IX il Santo, avvampavano le copie del Talmud. La parola di Dio, proprio come i corpi viventi che cadevano tra le braccia dell'Inquisizione, bruciava nelle fiamme. Iniziava così, per il Popolo del Libro, un'altra pagina della sua storia millenaria di sofferenze e persecuzioni. Eppure, come ci ricorda Simon Schama, docente alla Columbia University, questa storia non si consumò solo nel lutto e nelle fughe improvvise, nelle costanti minacce di annientamento e nell'oppressione. Quella del popolo ebraico è soprattutto una storia di resistenza, di creatività, di gioia. Una continua, e a tratti disperata, affermazione della vita sulle avversità più spaventose. In queste pagine si dipana quindi una straordinaria epopea, fatta di gente comune e di poeti, di autori biblici e medici illustri, di miniaturisti e mercanti, di cartografi e filosofi. Un caleidoscopio di microstorie in cui si accendono candele, si intonano canti, si affrontano viaggi perigliosi in terre incognite alla ricerca di spezie e pietre preziose, si studiano, si custodiscono e si perpetuano le parole del Libro. Un racconto che abbraccia millenni e continenti...