Non è detto che il turista da banane sia mal vestito, anzi spesso indosserà capi di buon taglio, vestigia di un guardaroba lussuoso.
Sono americani, cechi, tedeschi, francesi... Alcuni hanno conosciuto un momento di gloria, altri si sono limitati a mangiarsi il patrimonio di famiglia o le rendite.
Finché un giorno, quando già erano stufi della mediocrità o spaventati dalla miseria incombente, qualcuno ha detto loro:
« Sulle isole del Pacifico si può ancora vivere come nel paradiso terrestre, senza soldi, senza vestiti, senza preoccuparsi del futuro... ».
Per pagarsi la traversata hanno venduto tutto quello che avevano. Allo sbarco le autorità locali, prudenti e spesso scottate, pretendono a titolo di cauzione il versamento del costo del biglietto di ritorno. Capite?
L’indomani ogni buon turista da banane ha già comprato un pareo e un cappello di paglia intrecciata. Seminudo, sdegnando la città e i coloni che indossano completi bianchi e camicie con il colletto rigido, si dirige di buon passo verso le lunghissime spiagge.
Sylvie ha diciassette anni ed è bella, procace, con un seno magnifico che eccita gli uomini e che la sera le piace guardare allo specchio, "afferrare a piene mani". Marie, invece, che ha un anno più dell'amica e insieme a lei è stata assunta come domestica alla pensione Les Ondines, è brutta e strabica, timida e un po' tonta; già a scuola, da piccola, le compagne "le giravano al largo, dicendo che il suo sguardo aveva un influsso malefico". Ma, di quello che passa per la testa di Sylvie, Marie intuisce tutto. Sa perché si spoglia davanti alla finestra aperta con la luce accesa, e sa anche che se Louis, il figlio ritardato ed epilettico della vecchia donna di servizio, si è impiccato la colpa è stata di Sylvie. Avida e sensuale, pronta a ogni bassezza per ottenere ciò che vuole, Sylvie lascerà il quartiere miserabile del paesino dov'è nata, e vivrà negli agi. Marie, che appartiene alla razza delle creature "segnate dalla malasorte", affronterà l'esistenza mediocre a cui è destinata. Più di vent'anni dopo le due donne si rincontreranno, a Parigi. Marie sarà di nuovo la schiava adorante di colei che odia, e la aiuterà persino a ereditare i milioni dell'uomo che da anni la mantiene. Ma riuscirà anche, finalmente, a ribaltare i ruoli e a prendersi una crudele rivincita.
«Alle cinque ero là, come gli altri giorni... Stavo mandando giù un sandwich, e intanto mi guardavo intorno distrattamente... E a un tratto ho notato una donna che mi osservava sorridendo... «Non sono un dongiovanni, mi creda... Mi è sempre bastata mia moglie... «Ma quella lì... Mi sono subito chiesto che ci facesse in un locale così popolare... Le capita di andare al cinema, no?... Ha presente le dive americane, le vamp, come le chiamano?... «Be', dottore, avevo davanti agli occhi una vamp!...».
Quando, in una notte di pioggia scrosciante, Pierre Chave attraversa illegalmente la frontiera tra il Belgio e la Francia (dov'è ricercato per diserzione), non ignora che la sua sarà una corsa contro il tempo: per evitare che una bomba scoppi in una fabbrica di aerei nella periferia di Parigi, facendo decine di vittime innocenti, deve a ogni costo riuscire a trovare Robert, il «ragazzino» fragile, infelice e bisognoso di affetto - Robert che, dopo averlo venerato come un maestro, si è sottratto alla sua influenza lasciandosi indurre a compiere un attentato. Lo scopo di Chave non è soltanto salvare gli operai della fabbrica, ma impedire che Robert si macchi di una colpa orrenda. Perché, pur credendo fervidamente nell'ideale anarchico, aborre la violenza, ed è persuaso che il terrorismo come metodo di lotta politica sia una strada senza uscita. L'uomo è consapevole che la sua è una missione quasi disperata: su di lui pesano infatti i sospetti della polizia, e insieme quelli dei suoi stessi compagni, convinti di essere stati traditi. Un romanzo à bout de souffle, uno dei pochi di Simenon, ha scritto André Gide, in cui il protagonista agisce dall'inizio alla fine «spinto da una volontà ferrea».
«Forse questo è il libro che i critici mi chiedono da tanto tempo e che ho sempre sperato di scrivere» azzarda Simenon, che ha terminato "Le persiane verdi" in una sorta di stato di grazia, all'indomani della nascita del secondo figlio. Ha tutte le ragioni di essere soddisfatto: è riuscito a scolpire una figura larger than life, Emile Maugin, celeberrimo attore giunto, a sessant'anni, all'apice del successo e della fama, che un giorno apprende di avere, al posto del ventricolo sinistro, «una specie di pera molle e avvizzita». «Maugin non è ispirato né a Raimu, né a Michel Simon, né a W.C. Fields, né a Charlie Chaplin» afferma risolutamente Simenon nell'Avvertenza. «E tuttavia, proprio a causa della loro grandezza, non è possibile creare un personaggio dello stesso calibro, che faccia lo stesso mestiere, senza prendere in prestito dall'uno o dall'altro certi tratti o certi tic». Ciò detto, taglia corto, «Maugin non è né il tale né il talaltro. È Maugin, punto e basta, ha pregi e difetti che appartengono solo a lui». Pregi e difetti alla misura del personaggio: dopo un'infanzia sordida, ha lottato, perduto, vinto, amato, desiderato, conquistato e posseduto tutto - donne, fama, denaro -, e coltiva la propria leggenda abbandonandosi a ogni eccesso. Prepotente, scorbutico, cinico (ma segretamente generoso), regna da tiranno su un piccolo mondo di sudditi devoti e trepidanti, fra cui la giovanissima e amorevole moglie, ma vive nella costante paura della morte e nella nostalgia dell'unica cosa che non ha mai conosciuto: la pace dell'anima - quella cosa tiepida e dolce a cui il suo desiderio attribuisce la forma di una casa con le persiane verdi.
«Alla luce di quanto oggi sappiamo della vita di Simenon, per sue dirette ammissioni, i turbamenti erotici del protagonista appaiono come un'adombrata liberatoria confessione: "Una fame di sesso puro, se così posso esprimermi senza far sorridere, ossia che prescindesse da qualsiasi considerazione sentimentale e passionale". Sono le parole di Gobillot, di fronte all'irrefrenabile impulso che lo governa...». (Piero Gelli)
Il 1938 è per Simenon un anno fausto: pubblica, da Gallimard, dieci romanzi e due raccolte di novelle, nonché, nella collana «Police-Film», dieci nuove inchieste di Maigret (che pure, nel 1934, aveva deciso di mandare in pensione). Nel frattempo, mentre ristruttura una casa a Nieul-sur-Mer, nella Charente-Maritime, non smette di produrre a un ritmo infernale: «non romanzi, che avrebbero richiesto troppa concentrazione, ma racconti di una cinquantina di pagine, uno al giorno». Tra gli altri, nel corso del solo mese di maggio, ne scrive tredici dedicati al dottor Jean Dollent: un giovane medico di campagna che, per la sua statura non imponente, ma soprattutto perché è una persona semplice e gentile, i pazienti chiamano familiarmente «il dottor Jean», o anche solo «il dottorino». Irruente, competitivo ed entusiasta (nonché sensibile al fascino femminile e incline all'innamoramento), il dottorino scopre di possedere notevoli capacità investigative, di essere «un risolutore di enigmi umani» - simile, in questo, al commissario Maigret, e come lui pronto a mettersi nella pelle degli altri, a «vederli muoversi nel loro ambiente». Con Jean Dollent, Simenon ci regala un personaggio non meno accattivante dei componenti dell'Agenzia O - un personaggio capace di conquistarci al primo incontro.
Accade molto di rado che Simenon segnali che i personaggi e gli eventi da lui narrati sono «puramente immaginari e privi di qualsiasi riferimento a persone viventi o defunte». Per capire come mai in questo caso ne abbia sentito il bisogno occorre tornare al 1945, quando al fratello Christian, condannato a morte in contumacia per aver coadiuvato le SS in una spedizione punitiva che aveva fatto ventisette vittime, Georges aveva consigliato di arruolarsi nella Legione straniera: un modo per scomparire, certo, e per riscattarsi – ma anche, cambiando cognome, per non compromettere lo scrittore ormai celebre con una parentela imbarazzante. «È colpa tua! Lo hai ucciso tu!» si sentì rinfacciare dalla madre allorché, ai primi di gennaio del 1948, lo stesso Georges le comunicò la morte, nel Tonchino, del figlio preferito. Nei mesi immediatamente successivi, quasi volesse espellere i propri fantasmi, Simenon scrisse due dei suoi romanzi più neri e potenti: La neve era sporca e Il fondo della bottiglia. In quest'ultimo, uno stimabile avvocato, che è riuscito, partendo dal basso, a conquistarsi un posto nella ristretta comunità dei notabili di Nogales, al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, vede vacillare tutte le sue certezze quando gli compare davanti, evaso dal carcere in cui scontava una condanna per il tentato omicidio di un poliziotto, il fratello minore – quello debole, irresponsabile, sfortunato, eppure dotato di un inquietante potere di seduzione –, che gli chiede di aiutarlo a passare la frontiera. Nel piccolo mondo costituito dai ricchi proprietari dei ranch l'arrivo dell'estraneo scatena una sorta di psicodramma, che culminerà in una vera e propria caccia all'uomo, mentre, fra odio e amore, rancori e sensi di colpa, sbronze e scazzottate, si consuma la resa dei conti tra i due fratelli.
Raramente Simenon ha creato un intreccio così ricco e frizzante come in questo romanzo, che è stato definito «un Maigret senza Maigret», e in cui ritroviamo, in compenso, alcuni dei suoi celebri «comprimari»: Lucas, qui promosso commissario, e il perennemente scalognato ispettore Lognon. Sullo sfondo dei quartieri più chic di Parigi, tra i caffè degli Champs-Élysées e gli alberghi di lusso intorno all'Opéra, lo scrittore si diverte a mescolare con spettacolosa abilità la scomparsa di un cadavere, una banda di gangster, una «pupa» che è uno schianto, un faccendiere ungherese, l'alta finanza, l'alta società, la Polizia giudiziaria e un rapimento da film americano. Ma, soprattutto, dà vita a uno dei suoi personaggi più accattivanti: Ugo Mosselbach, detto il Sorcio, un anziano barbone di origine alsaziana (in passato organista e insegnante di solfeggio), il quale, tutt'altro che mortificato dalla sua condizione, è una sorta di guitto beffardo, che Simenon descrive così: «un ometto magro, con due occhi eccezionalmente vivaci e maliziosi, una peluria rossiccia che tendeva al bianco sporco e un modo personalissimo di portare stracci troppo grandi per lui con una dignità che rasentava l'eleganza». La sera in cui trova un portafogli gonfio di dollari, il Sorcio architetta un piano infallibile, che dovrebbe permettergli di comprarsi la vecchia canonica di Bischwiller-sur-Moder dove sogna di finire i suoi giorni. C'è purtroppo un piccolo dettaglio, che complicherà parecchio le cose: il portafogli era accanto a un cadavere. Sarà la curiosità (ma anche la voglia di sfidare l'ispettore Lognon!) a spingerlo a condurre una sua indagine parallela, che lo catapulterà in una sequela di guai. Un romanzo che ha i toni di una commedia poliziesca, magistralmente orchestrata da Simenon su un tempo di allegretto.