Composti nel IX secolo, "Gli aforismi di Siva" (Sivasutra) sono una delle opere basilari del cosiddetto Sivaismo del Kashmir, o Trika, "Triade". Riscoperti solo nel Novecento, gli insegnamenti delle scuole Trika - che rientrano nell'ambito più vasto del Tantrismo e sono improntati a un non-dualismo radicale (paramàdvaita, "supremo non-dualismo") - si sono andati rivelando i più alti raggiungimenti della speculazione e della spiritualità indiana di ogni tempo, e hanno attratto un numero crescente di studiosi e di ricercatori, dall'India all'Europa agli Stati Uniti. Secondo l'insegnamento essenziale del Tantrismo, il progresso spirituale deve essere visto non già come un cammino di negazione e di rinuncia, ma come una coltivazione e intensificazione di tutte le linee di energia che animano l'esistenza ordinaria e, in primo luogo, l'individuo nella sua fisicità e nelle sue pulsioni, compresa quella sessuale. Il mondo non appare quale un fosco e incerto sogno da cui risvegliarsi al più presto, ma come la spontanea espressione del divino, che per suo tramite si manifesta liberamente. In miracoloso equilibrio, il Tantrismo kashmiro si muove tra spiritualità, epistemologia e una avanzatissima speculazione che apre l'esperienza religiosa e filosofica alla contemplazione estetica - ed è proprio negli ambienti tantrici sivaiti che il pensiero estetico si definisce nella sua forma più compiuta, elegante ed estrema.
Muovendo dallo studio dei rilievi del prodigioso tempio giavanese di Barabudur (IX secolo), Bosch ci accompagna, attraverso una lussureggiante selva di richiami simbolici, fino al cuore della concezione indiana del mondo: Hiranyagarbha, il Germe d'oro del Rgveda, il principio unico della vita. Emerso dalle acque primordiali come pianta di loto, partecipe delle essenze opposte di Soma e di Agni, Hiranyagarbha diviene l'albero cosmico rovesciato, asse dell'universo, nel quale scorre il rasa, l'Acqua della Vita che anima e accomuna tutti gli esseri - animali, uomini e dèi. Così, i motivi che ai non iniziati potevano sembrare decorativi si rivelano carichi dei più profondi significati metafisici e religiosi. Guidato da un mirabile intuito per le immagini e da una rara familiarità con le fonti iconografiche e letterarie, Bosch ricostruisce la cosmologia che plasma non solo ogni forma dell'arte e dell'architettura indù e buddhista, ma anche la religione, il mito, la nozione stessa dell'uomo e della vita propri dell'India antica.
Attingendo alle opere somme della letteratura sanscrita - i Veda, i grandi poemi epici, i testi tantrici e puranici - ma anche alla fonte inesauribile delle tradizioni locali e orali, Wendy Doniger, indologa di fama mondiale, studiosa originale e audace, ci offre della civiltà indù una storia eterodossa, capace di dare voce ai personaggi relegati ai margini dalla storiografia ufficiale. L'esito è una trama abbagliante di racconti, la celebrazione di una tradizione plurale, inclusiva e infinitamente diversificata: anche le classi più basse ed emarginate, osserva la Doniger, ci parlano: "non sempre attraverso voci registrate sulla pagina scritta, ma con segni che possiamo comunque leggere, se lo vogliamo".
Tantrismo è parola su cui negli ultimi decenni si sono addensati in pari misura gli equivoci, la curiosità e gli studi rigorosi. Nella sua versione più diffusa e grezza, il tantrismo sarebbe una via che introduce a pratiche erotiche estreme. Ma in realtà una selva di dottrine metafisiche e pratiche rituali di ogni genere si collegano all'esperienza tantrica. In particolare lo sivaismo kashmiro, sviluppatosi a partire dal secolo IX e culminato nell'opera grandiosa di Abhinavagupta, apre prospettive audacissime di pensiero, soprattutto per la scuola dello Spanda ("vibrazione"), in cui speculazione e pratiche yogiche si intrecciano armoniosamente, corrispondendosi come due facce della stessa medaglia. Il libro di Dyczkowski è una limpida esposizione di queste dottrine, che solo negli ultimi decenni stanno riemergendo.
Fra tutti i libri di Réne Guénon, "L'uomo e il suo divenire secondo il Vâdânta" è forse quello che più di ogni altro mostra l'intelaiatura del suo pensiero. Sottintendendo, naturalmente, che tale pensiero non pretende di inventare nulla, ma soltanto di esporre con la massima precisione un pensiero che da sempre è: la tradizione primordiale la cui dottrina, secondo Guénon, non traspare mai con altrettanta precisione come nel pensiero vedantico. Si può dire che il Vâdânta è una sorta di dottrina suprema. Nessuno ha saputo esporla in Occidente con l'evidenza assoluta che incontriamo in questo libro di Guénon. E nessuno ha saputo sgombrare il campo, con gesto non meno autorevole, dai numerosi, tipici equivoci occidentali intorno a tale dottrina, considerata da tanti una filosofia o una religione o "qualche cosa che partecipa più o meno dell'una o dell'altra", mentre non è in verità niente di tutto questo.
Se si risale alla più remota antichità indiana, a un'epoca che precede il Buddha e quella cultura che gli occidentali sono soliti identificare con l'India stessa, si trovano, anziché vestigia di monumenti chiuse in un silenzio altero, null'altro che testi, spesso di dimensioni imponenti, i quali compongono l'immenso corpus chiamato Veda. E il Veda ruota intorno a un cardine, a un centro potente che non potrebbe essere per noi più misterioso: il sacrificio, che pur incarnandosi in riti molteplici "è diffuso ovunque; risiede allo stato latente in tutto ciò che è, poiché 'tutto ciò che è partecipa al sacrificio', ma, 'come gli dèi, sfugge ai sensi'". Chi voglia capire che cos'è questa mirabile architettura di parole e gesti minuziosamente codificati non può che rivolgersi ai Brahmana, i testi vedici di esegesi liturgica, che nel dar ragione di ciascun elemento dei riti intessono un reticolo vertiginoso di connessioni volto a catturare l'universo dei significati nelle maglie del sacrificio. Ma per mole e complessità i Brahmana sarebbero rimasti una foresta quasi impenetrabile per il non specialista se l'eminente indologo Sylvain Levi non avesse pubblicato, sulla base di lezioni tenute negli anni 1896-1897, questo libro: una guida al pensiero dei Brahmana costruita interamente attraverso il sapiente incastro di citazioni emblematiche, che nella sua scrupolosa esattezza induce qualsiasi lettore a riconoscere l'audacia e l'altezza speculativa di questi testi.
A causa di un antico abbaglio, propagato da illustri studiosi, si è a lungo sostenuto che la civiltà indiana mancasse di un vero senso dell'etica, riservato all'Occidente. Nulla di più falso. Sin dalle origine vediche, l'India rivela una sensibilità esacerbata nei confronti del male. Anzi, tutte le vicende degli dèi possono essere raccontare come altrettanti episodi di un conflitto con le forze maligne. Questo libro non intende solo spazzare via una quantità di rappresentazioni erronee, ma soprattuto introdurci a uno sterminato ventaglio di miti, dove le più remote possibilità del male vengono indagate.