Charles Bonnet, naturalista ginevrino del Settecento, si era occupato di tutto: dall'entomologia alla riproduzione dei polpi, dalla botanica alla filosofia. Quando seppe che suo nonno, ormai semicieco, iniziava ad avere "visioni" di strani oggetti flottanti e di ospiti immaginari, volle stenderne un minuzioso resoconto, che passò inosservato per oltre un secolo e mezzo. Oggi la sindrome descritta da Charles Bonnet, che collegava l'insorgere di stati allucinatori con la regressione della vista - come se il cervello intervenisse, a modo suo, per compensare il senso perduto -, è ormai riconosciuta dalla letteratura medica, anche se viene raramente diagnosticata perché le allucinazioni sono associate alla demenza, alla psicosi, e chi ne soffre tende spesso a tacerne. Ma non è sempre stato così: in altri tempi e in altre culture, gli stati alterati di coscienza venivano percepiti come condizione privilegiata - da ricercare e indurre con la meditazione, l'ascesi, le droghe - e hanno influenzato l'arte, il folclore, il senso del divino. Con questa "storia naturale delle allucinazioni" Sacks aggiunge un ulteriore tassello alla sua "scienza romantica", capace di tramutare la casistica medica in una forma d'arte empatica.
Che Jung considerasse l'immaginario alchemico una risorsa per la pratica psicoanalitica è noto, e testimoniato da opere quali "Psicologia e alchimia" e "Mysterium Coniunctionis". Negli scritti qui raccolti Hillman riprende e approfondisce le intuizioni junghiane traendone un solido impianto epistemologico. Se "l'individuazione della nostra anima richiede il riconoscimento dell'individualità dell'anima presente nelle cose", è legittimo affiancare alla psicologia un mondo a prima vista ai suoi antipodi come l'alchimia, giacché non vi è poi troppa differenza tra chi tentava di trasmutare metalli vili in oro e chi trasmuta anime sofferenti in anime rasserenate. Hillman illustra le corrispondenze insospettate tra stadi dell'opus alchemico e momenti dell'opus analitico. E il primo paziente di questa terapia fondata su sostanze mutevoli e influssi astrologici è la psicologia stessa, poiché lo scopo dichiarato di "Psicologia alchemica" è fornirle "un altro metodo per immaginare le proprie idee e i propri procedimenti". Qui sta, in definitiva, la vera forza di queste pagine: il linguaggio alchemico dona nuova energia a quel processo di revisione della psicologia cui Hillman ha dedicato tutta la vita.
A lungo la coscienza è stata sovrapposta a nozioni quali "spirito" o "anima", quasi che l'ultima parola sull'argomento spettasse di necessità alla filosofia o alla teologia. Da qualche tempo, tuttavia, i neuroscienziati hanno fatto della coscienza - che insieme alla natura profonda della materia e dello spaziotempo costituisce l'ultimo baluardo del sapere occidentale - uno dei loro oggetti di indagine prediletti: e si vanno profilando acquisizioni sorprendenti e controintuitive. Fra i massimi neuroscienziati spicca Antonio Damasio, che in questo densissimo libro approda a una sorta di summa della sua ricerca trentennale, dove i fondamenti di quella prospettiva antidualistica che lo ha reso celebre (si pensi al legame tra regioni cerebrali "arcaiche", come l'amigdala, e più recenti, come la corteccia prefrontale, nella genesi delle scelte morali e dei processi decisionali) sono integrati da nuove e complesse sequenze: quella sull'incidenza delle emozioni e dei sentimenti primordiali (il piacere e il dolore) come ponti connettivi tra il proto-sé e il sé; quella sul discrimine tra percezione e rappresentazione degli eventi interni ed esterni al nostro corpo come base biologica, unitamente alla memoria, nella costruzione dell'identità individuale; e in particolare frutto di una personalissima ricerca di unità ispirata alla rilettura di Spinoza...
Lilian Kallir è una brillante pianista che predilige Mozart: una sera, allorché deve affrontare il Concerto n. 21 (quello col famoso Andante), la partitura diventa di colpo un intrico di segni incomprensibili; è l'esordio di una neuropatologia che le impedirà, se non di scrivere, di leggere alcunché e altererà la sua percezione sino a farle confondere un violino con un banjo o un rasoio con una penna. Sue Barry è riuscita a diventare neurobiologa nonostante una menomazione invalidante: una forma di "strabismo" che inibisce la visione "stereoscopica", sicché gli occhi sono attivi uno per volta, in alternanza, senza mai potersi coordinare; per lei, la profondità e la terza dimensione sono categorie puramente immaginarie. Sono solo due dei casi raccontati e analizzati nel nuovo libro di Oliver Sacks: storie di amputazioni e deformazioni affettivo-cognitive che sembrano sfociare in drammi senza ritorno. Eppure Sacks mostra ancora una volta come ogni ferita attivi inaspettate strategie adattative, una capacità impensabile di conservare o ridisegnare l'Io e il Sé. Ma per il lettore la vera sorpresa consisterà nel vedere tali dinamiche confermate dall'esperienza personale dello stesso Sacks. Scrutandosi con freddezza clinica, ma senza il timore di rivelare le oscillazioni dei suoi stati d'animo, il neurologo-scienziato parla infatti sia della sua prosopagnosia (l'incapacità di riconoscere i volti), sia dell'odissea legata a un melanoma maligno nella regione dell'occhio sinistro.
Raccogliendo nel 1974 interventi apparsi nell'arco di circa un decennio, Elvio Fachinelli additava proprio negli scarti e nelle devianze di un «procedere asistematico» le ragioni della loro intima coerenza. Snodi decisivi della psicanalisi, e più in generale dei mutamenti della società contemporanea, vengono anzitutto affrontati attraverso chiose e commenti a testi di maestri quali Freud, Reich, Benjamin o a narrazioni di pazienti: il saggio di Freud sulla «negazione», ad esempio, consente a Fachinelli di rileggere con magistrale acutezza il «disagio della civiltà » e il rapporto tra «analità » e «denaro» (da cui il «bambino dalle uova d'oro» del titolo), mentre il referto clinicamente delirante di una paziente psicotica, Rose Thé, è sorprendentemente eletto a metafora dell'ambiguità dell'utopia sessantottesca, fondata su «intelaiature ideologiche» già obsolete all'atto di nascita. E anche laddove lo sguardo si appunta su temi disparati e in apparenza eccentrici - dai deficit delle politiche per l'infanzia all'identità dei «travestiti» e dei loro clienti, dal marxismo in Cina alla lettura in prospettiva freudiana dell'Otello di Shakespeare o della Lettera rubata di Poe -, sempre riaf fiorano e si impongono possibilità interpretative sorprendenti e interrogativi radicali sulla psicanalisi stessa.
Se il suicidio è certamente il più violato fra i tabù – oggi più che mai, come testimoniano le cronache –, rimane nondimeno, nella percezione comune, lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile. La giurisprudenza lo ha giudicato per molto tempo un reato; la religione lo considera peccato, aborrendolo più di ogni altra forma di uccisione e condannandolo come atto di ribellione e apostasia; la società lo rifiuta, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la follia, quasi che il suicidio fosse l’aberrazione antisociale per eccellenza. E non si può dire che siano mancate riflessioni e analisi – da John Donne a Hume, da Voltaire a Schopenhauer, da Durkheim alla messe di studi psicologici e psichiatrici –, ma il problema, nella sua essenza, è rimasto intatto.
Nel 1964 James Hillman capovolge ogni prospettiva con questo libro. Un libro che, dichiara, «mette in discussione la prevenzione del suicidio; va a indagare l’esperienza della morte; accosta il problema del suicidio non dal punto di vista della vita, della società e della “salute mentale”, bensì in relazione alla morte e all’anima. Considera il suicidio non soltanto come una via di uscita dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte … Questo punto di vista totalmente altro scaturisce dall’indagine del suicidio per come è esperito attraverso la visione che l’anima ha della morte». Perché nell’esperienza della morte, afferma Hillman, l’anima trova una rigenerazione, e dunque l’impulso suicida non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita: potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di un’esistenza più piena.
Con questo libro Elvio Fachinelli si avventura nella regione che, per la psicoanalisi tutta e in primo luogo per Freud stesso, fu la regione per eccellenza del pericolo, della minaccia, dell'ambiguità invischiante: l'estasi. Di questo percorso affascinante Fachinelli scrive sobriamente: "Frugo uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un'area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell'affermazione di un io personale, ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell'evoluzione dell'uomo detto civile. Sarebbe assurdo criticare o irridere questo accantonamento, che è stato una necessità per la maggioranza degli esseri umani. Si può dire, ora, che questa necessità viene meno? e che possiamo prendere in noi, che possiamo esercitare pienamente una disponibilità finora trascurata, ma non assente? Se si risponde di sì, allora l'estatico che nella nostra civiltà affiora di solito in esperienze liminari, facilmente ritenute insignificanti, o addirittura inesistenti, non è proprio di sperimentatori eccentrici, ma è ciò che manca alla nostra comune percezione. Esso può cominciare ad entrarvi, a patto di vincere i processi di isolamento e frammentazione, più che di vera e propria cancellazione, a cui è stato sottoposto sin qui. [...]"
Non sempre è giusto cedere al fascinoso luogo comune secondo il quale chi muore giovane è caro agli dei, perché "così come il carattere guida l'invecchiamento, l'invecchiamento guida il carattere". La senilità, quindi, non è un caso, né una dannazione, né l'abominio di una medicina moderna devota alla longevità, ma la condizione naturale e necessaria affinché si verifichino l'intensificazione e la messa a punto del nostro carattere, ossia della forma del nostro durare. Ma anche se il carattere sopravvive per immagini, invecchiare è una forma d'arte che ogni essere umano deve affrontare perché la vecchiaia si configuri come una "struttura estetica" che permetta di svolgere il ruolo archetipico di avo cui ogni anziano è chiamato.
In questo volume, che raccoglie i più rilevanti scritti teorici di Groddeck, il lettore troverà lo psicanalista direttamente al lavoro sui frammenti più disparati dell'Es, siano essi un caso clinico, o la rete di significati connessi all'occhio o al ventre, o una serie di parole di cui egli studia per mezzo dell'etimologia la simbologia nascosta, o un'opera letteraria come il "Peer Gynt" di Ibsen.
La guerra, sostiene Hillman in questo libro, è una pulsione primaria e ambivalente della nostra specie. Una pulsione dotata di una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l'amore e la solidarietà. Il presupposto è che, se di quella pulsione non si avrà una visione lucida, ogni opposizione alla guerra sarà vana.
Attingendo ai risultati più recenti delle neuroscienze cognitive - in parte conseguiti dal suo stesso gruppo di ricerca allo University of Iowa Medical Center -, Damasio propone una risposta a vertiginosi interrogativi: da dove nascono i sentimenti? A che servono? E infine: che cosa sono? In questa analisi, insieme fenomenologica e neurobiologica, l'esperienza clinica e scientifica di Damasio si fonde, soprattutto nella esposizione dei casi clinici, con una vena narrativa affine a quella di Oliver Sacks. Il volume completa la trilogia iniziata con "L'errore di Cartesio" ed "Emozione e coscienza". Nato a Lisbona, Damasio è preside del Dipartimento di Neurobiologia presso l'University of Iowa.
Anatomia di una nozione personifica