Conosciamo l'antica Grecia e i sumeri, ma che cosa sappiamo di altre grandi civiltà ritenute secondarie? Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall'oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L'autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell'Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell'uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell'Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell'umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l'aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale.
Perché ci prendiamo cura degli altri anche quando non siamo legati da rapporti personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente? Quali sono, insomma, i fondamenti motivazionali che ci spingono ad agire eticamente e ad adottare comportamenti socialmente empatici? La risposta a questa domanda richiede di interrogarsi sul ruolo delle passioni, per gettare un nuovo sguardo sui due paradigmi nei quali si riassume di fatto la proposta etica del nostro tempo. Partire dalle passioni (come invidia e indignazione, paura e compassione, risentimento e amore), purché affrancate da ogni sospetto di irrazionalità, ci consente in primo luogo di pensare un'idea di giustizia diversa da quella che fonda il paradigma razionalistico corrente, per mostrarne piuttosto i fondamenti affettivi e distinguere tra pretese legittime e pretese illegittime di giustizia. In secondo luogo, ci consente di sottrarre la cura a una visione altruistico-assistenziale per mostrarne, insieme alla complessità emotiva non priva di aspetti perturbanti, le potenzialità di una forma di vita. Infine, permette di riaffermare, contro ogni riduzione unilaterale, la complementarità tra le due prospettive etiche, tanto più necessaria quanto più esse sono chiamate a misurarsi con le sfide radicali del nostro mondo globale: prima fra tutte, l'ampliamento dell'idea stessa di altro attraverso le due figure inedite dell' altro distante nello spazio (lo straniero, il diverso) e dell' altro distante nel tempo (le generazioni future). Muovendosi attraverso i grandi classici della «simpatia» (Hume e Smith), la riflessione filosofica del Novecento (da Anders a Jonas, da Arendt a Derrida, da Mauss a Ric?ur) e il dibattito contemporaneo (da Rawls a Sontag, da Gilligan a Nussbaum, fino a Foucault e Sloterdijk), Elena Pulcini si chiede quali passioni presiedano alla lotta contro l'ingiustizia e quali alimentino la capacità di una buona cura, confidando nella genesi di un soggetto emozionale: un soggetto che attraverso la dinamica interminabile della relazione con l'altro, sappia distillare dalle passioni la qualità etica e generativa capace di promettere un mondo migliore.
Tra i principi portanti della modernità, che per secoli ha ispirato pensieri e azioni di interi popoli, è stata l'idea architrave di ricondurre alla ragione il caos del mondo, ordinare, classificare, calcolare, sottoporre a controllo, e identificare l'indistinto, bandire l'ambiguo. Tale idea conteneva un progetto di costruzione sociale e una promessa di felicità. Il primo ha lasciato dietro di sé delle macerie, la seconda non è mai stata adempiuta. Zygmunt Bauman dichiara qui il fallimento di un'epoca della storia umana, misurandolo sulla insostenibilità della pretesa iniziale. È l'ambivalenza, infatti, e non l'univocità, la condizione normale in cui ci tocca vivere. Noi esseri finiti ci condanniamo alla perenne inadeguatezza se ammettiamo soltanto l'alternativa rigida tra l'ordine e l'informe, tra le entità (cose, persone, collettività, situazioni, categorie della mente) che il linguaggio riesce a nominare in modo trasparente e l'imprevedibile, l'indeterminato, l'incontrollabile, di cui avvertiamo la presenza minacciosa. Modernità e ambivalenza rimane, come scrive Donatella Di Cesare nella sua Postfazione, un'opera decisiva che ha segnato la svolta del percorso intellettuale del sociologo che più di ogni altro ha saputo definire la contemporaneità.
Attraverso cinque saggi che scandiscono il percorso di ricerca di Claudio Pavone, "Gli uomini e la storia" presenta alcuni dei contributi più rilevanti dello storico e propone una visione coerente della fase fondatrice della nostra Repubblica che affonda le sue radici fin dalla «crisi della democrazia risorgimentale». Cuore del volume è rappresentato dal saggio sulla continuità dello Stato tra il fascismo e l'immediato dopoguerra, pubblicato per la prima volta nel 1974, e sempre più attuale. Ogni saggio è legato nella chiara e puntuale prefazione di David Bidussa a una parola chiave (Resistenza tradita, zona grigia, totalitarismo), tracciando così un discorso unitario e coerente della cornice interpretativa dello storico di "Una guerra civile". Mai come oggi la società civile è tenuta a interrogarsi sul senso della storia e su un passato non ancora condiviso. È quindi sempre più opportuno rivolgersi agli studiosi che si sono dedicati con serietà e passione alla riflessione sulle costanti, che sembrano sempre ritornare, della nostra storia nazionale.
La riflessione sull'idea di realtà è iniziata con la nascita della filosofia e continua da allora. Sul finire del Novecento, però, ha conosciuto un periodo di oblio dovuto al successo delle filosofie legate alla cosiddetta «svolta linguistica». Ma oggi la realtà è tornata e, come il fantasma del Commendatore alla fine del Don Giovanni , ci ricorda di questioni che non si possono ignorare. Per giudicare della realtà esterna dobbiamo fidarci dei sensi o della scienza? I colori, i suoni, gli odori esistono davvero o sono solo un prodotto interno alla nostra mente? Oltre agli oggetti materiali, esistono anche quelli immateriali, come le menti, i numeri e il tempo? E che statuto hanno i giudizi estetici e morali? Mario De Caro, con uno stile chiaro e accessibile anche ai non addetti ai lavori, ci aiuta a rispondere a queste domande. Lo fa introducendoci al «realismo ordinario» - che predilige la testimonianza dell'esperienza percettiva a quella della scienza -, facendoci dialogare con il «realismo scientifico» - secondo cui il mondo contiene soltanto le cose che le scienze naturali possono descrivere e spiegare - e approdando infine a una terza forma di realismo: il «naturalismo liberalizzato», che ammette l'esistenza (e la necessità) di una pluralità di chiavi di accesso a una realtà che è irriducibilmente complessa e variegata.
Con questo libro snello, ma profondo e documentato, Jim Al-Khalili - fisico, divulgatore e autore di veri bestseller - espone l'intera concezione del mondo secondo la fisica attuale. Per farlo, parte dalle basi, dalle fondamenta stesse della trama di cui è fatta la realtà, chiarendo nel dettaglio, per iniziare, i concetti di spazio, tempo, energia e materia. Preparato così il palcoscenico del mondo, alzato il sipario sul racconto, l'autore espone i tre pilastri su cui poggia la fisica moderna: la relatività, la meccanica quantistica e la termodinamica. Questo treppiede è oggi la base più solida che ci sia per capire l'universo in cui abitiamo, ma ancora ci manca il filo che leghi tra loro questi tre settori della ricerca scientifica; un filo che è assolutamente necessario trovare se vogliamo avere una comprensione piena e completa della realtà. Usando la riconosciuta brillantezza della sua scrittura, Al-Khalili ci conduce dall'enorme scala cosmica alla minuscola dimensione quantistica, dai dati consolidati alle speculazioni più audaci, dalle tecnologie più avveniristiche ai fenomeni fisici di tutti i giorni, illuminando con metafore rivelatorie l'affascinante mondo che si nasconde dietro la complessa matematica delle pubblicazioni specialistiche. Tutto il libro è un'ode alla fisica, forse la più radicale delle avventure intellettuali umane, quella che sopra ogni altra ha l'ambizione di indagare i principi ultimi dell'universo. I risultati ottenuti dalla ricerca, soprattutto nell'ultimo secolo, naturalmente ci inorgogliscono, ma non dobbiamo mai dimenticare che sono stati raggiunti anche grazie a valori umani basilari, come l'onestà e la coltivazione del dubbio, sistematicamente praticati dagli scienziati: sono loro la base del successo dell'impresa scientifica. Restano ancora molte frontiere da affrontare nella ricerca senza fine della verità, che è forse la più radicata delle passioni umane. Questo libro ci mostra il mondo meraviglioso della fisica, ma ci sprona anche a continuare l'indagine, a fare nuove domande e tenere sempre alta la nostra curiosità.
E invece adesso eccoci qui. Con gli stessi problemi di prima ma a mutazione avvenuta. Internet avrà smesso di essere oggetto di dibattito per diventare punto di partenza, eppure continuerà a giocare al gioco di sempre: fare spazio tra le persone e riempirlo di connessioni per le quali poi risultare indispensabile.
«Caro virus, io non so come ti comporti tu quando incontri un disinfettante, ma per noi morire è talmente increscioso
che ogni volta pensiamo stia succedendo per la prima volta».
Nella forma di una lettera al virus, in questo breve libro è come se Marco Bracconi riprendesse un discorso che era stato interrotto solo un istante prima dello scoppio della pandemia. Poi, l’irrompere del virus ha messo tutto in secondo piano per due mesi, durante i quali è successa una cosa nuova, dirompente: la Rete si è impossessata di noi ed è definitivamente diventata necessaria. In parte lo era anche prima, ma adesso non si torna indietro: «È finita» scrive Bracconi al virus, «la tua visita ha azzerato la carica virale di qualsiasi critica a Internet in quanto sistema-mondo».
La repentina accelerazione dell’immateriale è passata quasi inosservata mentre eravamo tutti impegnati nel lockdown e ora, improvvisamente, i corpi non ci sono più, sostituiti da connessioni, e-learning, smart working. Abbiamo lasciato che accadesse, ma «abbiamo preso in considerazione le ricadute sulle altre parti del sistema?»
«Ho avuto tre madri e non ne ricordo nemmeno una». Macondo, quindici anni, quoziente intellettivo da capogiro, lettore vorace con il mito di Sherlock Holmes e Martin Mystère, una passione inconfessata per la Bea, vuole scoprire che cosa c'è davvero nel suo passato. È una zona buia troppo grande per ignorarla, ma l'amatissima nonna, l'anticonformista artista cilena Rocío Sánchez, che pur conosce ogni verità, è determinata a rivelargliela solo dopo il traguardo dei diciotto anni: nel frattempo custodisce ciò che c'è da custodire dentro una scatola inaccessibile, lassù, sull'ultimo scaffale del suo studio. Animo da detective, e scatola fuori portata, Macondo comincia un'indagine personale, raccogliendo indizi e aneddoti che carpisce dalla tribù di amici di Rocío spesso radunati a casa loro, e dai foglietti che la nonna gli scrive strappandoli da un blocchetto che porta sempre appeso al collo: un intervento alla gola le ha portato via la voce e lei rimedia così, matita alla mano. Macondo scoprirà presto di portare inscritto nel nome ben più del senso di solitudine ispirato dal paese inventato da Gabriel García Márquez: nel suo nome è racchiusa tutta la sua storia. La sua ricerca d'identità diventa allora un cammino sia verso se stesso, sia verso chi lo ha amato, un percorso che lo conduce fino all'Istante largo, soggetto di un quadro della nonna, ma soprattutto epifania di un momento che apre le porte della consapevolezza: la famiglia non è necessariamente una struttura costruita a priori, ma può assumere le forme più diverse, spuntare in situazioni in cui i legami di sangue non ricoprono alcun ruolo, diventare uno spazio immenso per chi ama. Con una scrittura limpida e poetica, Sara Fruner ci offre una riflessione insieme intensa e lieve sull'imprevedibilità dei legami che ci forgiano. E se gli amori sono rimasti incompiuti, se sono terminati troppo presto, ogni legame spezzato del nostro passato può avere una seconda, inattesa chance, che ci sorprende.
In questo suo nuovo libro, Adam Rutherford è cristallino fin dalla prima frase sulle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere: c'è una guerra in corso e un genetista non può esimersi dal combatterla, mettendo a disposizione le sue conoscenze in forma comprensibile. Il razzismo ha rialzato la testa, che si tratti della forma più plateale e grossolana praticata dai suprematisti bianchi o di quella più subdola e velata di chi sostiene che i neri sono più portati per la corsa di velocità, che gli ebrei sono più intelligenti o di chi magari si crogiola in una genealogia personale che attesterebbe l'origine della sua famiglia in un nobile antenato vichingo. Sono tutte affermazioni prive di fondamento e se ne può provare l'insensatezza. È quel che fa questo libro. Gli uomini non sono tutti uguali, questo è evidente. Ma da qui a classificarli secondo il colore della pelle, aggiungendovi magari caratteristiche morali, ne corre. Il fatto è che, banalmente, non si può fare, se non incappando in una serie di contraddizioni che Rutherford analizza con grande competenza, sottile ironia e testarda determinazione. Tutti gli uomini sono parenti tra loro molto più di quanto si sospetti. Lo dice la genetica, con precisione matematica. Tutti gli europei discendono di necessità da chi abitava il continente attorno all'anno Mille; quindi sì, abbiamo tutti un nobile antenato vichingo, non solo tu. Per lo stesso identico motivo, tutti i nazisti hanno antenati ebrei, peraltro. Il razzismo ha causato e ancora causa sofferenze immani. In troppi però cadono ancora vittime delle sue semplificazioni consolatorie, consapevolmente o meno. Per questo Rutherford ha voluto fornirci quest'arma: «La razza esiste, perché la percepiamo. Il razzismo esiste, perché lo pratichiamo. Ma né la razza né il razzismo hanno un fondamento scientifico. È nostro dovere opporci allo snaturamento della ricerca scientifica, soprattutto se utilizzato per giustificare il pregiudizio. Se siete razzisti, state cercando la guerra. Ma la scienza è mia, non vostra alleata e voi combattete non soltanto contro di me, ma contro la realtà».
La famiglia è - caso più unico che raro - una struttura primaria che esiste in tutte le società. Qui si assolvono le funzioni della riproduzione, della crescita e della socializzazione dei bambini e al contempo quella della stabilizzazione della personalità degli adulti. Da sempre al suo interno si giocano dinamiche cruciali che tornano ciclicamente al centro del dibattito pubblico: il confronto e la relazione tra i sessi, la gerarchia e la costrizione dei ruoli, la costruzione dell'identità e il senso di appartenenza. Simbolo del calore umano, luogo di consuetudini complici e di un vocabolario intimo, la famiglia vive di un equilibrio costante tra ricerca di fusione e bisogno di autonomia. Capace di creare alleanze per la vita ma anche di alimentare rivalità distruttive, la famiglia può proteggere i suoi membri, aiutandoli a costruire identità serene e sicure, oppure controllarli e costringerli in ruoli estranei e dolorosi. Con il ricorso esemplare a film e romanzi che fanno parte del nostro comune immaginario, Anna Oliverio Ferraris - esperta delle dinamiche famigliari con alle spalle una lunga e solida esperienza accademica e psicoterapeutica - ripercorre, nel tempo e nello spazio, l'evoluzione di questo strano costrutto sociale che è la famiglia, per mostrarcene la natura permeabile, flessibile e plastica.
Come si pone oggi il problema degli inizi della filosofia? Come evitare le secche della contrapposizione tra mythos e logos, esplorando i multipli stili di pensiero al confine fra orizzonte mitologico e ragione nascente? Maria Michela Sassi riparte dagli interrogativi canonici - il quando del pensiero, la sua natura specifica e le sue forme distintive - per ricomporre la trama del sapere arcaico attraverso i punti di fuga, le accelerazioni temporali, le tecniche cognitive (prima fra tutte la scrittura), l'agonismo intellettuale che resero possibile quello che un tempo si sarebbe chiamato «il miracolo greco». Gli albori del lungo processo di autoriconoscimento della filosofia furono all'insegna del policentrismo geografico e del poligenetismo disciplinare: da Mileto a Elea, da Efeso ad Agrigento si riflette sull'ordine cosmico e si elaborarono dottrine dell'anima, si scrisse nel solenne metro epico di Omero o si abbandonò la prosodia a favore di una prosa assertiva, scandita come le formulazioni delle leggi nella polis. E poi Senofante rapsodo, Pitagora matematico, Eraclito nella dizione oracolare, Empedocle «demonologo», tutti condividono la medesima tensione nell'esercizio della ragione che ha rivoluzionato il paesaggio del sapere greco e, in ultimo, fondato la filosofia occidentale.
Che cosa succederebbe se "Matrix" non fosse solamente un film, ma lo strumento migliore che la filosofia ha a disposizione per descrivere la realtà? È quello che ci racconta Donald Hoffman, utilizzando la filosofia, le teorie della percezione, il marketing, la teoria dei giochi e la selezione naturale. Mettendo insieme i contributi di queste discipline, il risultato - allo stesso tempo straordinariamente semplice e sorprendente - è proprio quello svelato dalla famosa pillola rossa del film: "ciò che percepiamo non è la realtà", ma - e qui interviene la selezione naturale di Darwin - ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Da quando Homo sapiens ha messo piede sulla terra, la selezione naturale ha favorito una percezione che ha avuto l'obiettivo di guidarci verso azioni utili, modellando i nostri sensi non per conoscere le cose come sono ma per poterci tenere in vita e riprodurci. I geni sono stati - e continuano a essere - dei timonieri scaltri ed egoisti. Vediamo una macchina passare a tutta velocità, e non attraversiamo la strada. Notiamo che sul pane sta crescendo la muffa e decidiamo di buttarlo via invece di mangiarlo. Ma nella realtà oggettiva non esistono né la macchina né la strada né la muffa né il pane. Non esistono nemmeno lo spazio e il tempo. Proprio come le icone sul desktop dei nostri computer sono dei simboli utili e non delle rappresentazioni veritiere di ciò che esiste davvero dentro alla macchina, anche gli oggetti che vediamo ogni giorno sono come delle semplici «icone», che ci consentono di muoverci nel mondo con sicurezza e facilità, ma non ci dicono nulla su cosa ci sia davvero là fuori. Oggi i nostri occhi ci salveranno la vita. Ma lo faranno mostrandoci la verità o nascondendocela? In "L'illusione della realtà" Donald Hoffman ci costringe a ripensare tutte le nostre certezze; a comprendere che i vantaggi adattativi sono molto più importanti per la nostra specie della verità; e soprattutto a riconoscere che ciò che chiamiamo realtà è soltanto la più sofisticata ed evoluta delle illusioni.