L'ultimo secolo ha visto cambiamenti epocali: la trasformazione della società di classe in società di massa, l'accentuarsi del legame fra scienza e tecnologia, le guerre mondiali, i sistemi totalitari, l'accelerazione digitale. Riattualizzando la visione della modernità offerta da Max Weber, Heller riflette sul nostro tempo e in particolare sul concetto di verità nella sfera politica. Cosa consideriamo vero? Quanto pesa l'interpretazione sulle nostre posture politiche? In che modo la verità politica si distingue dal vero in altre sfere del mondo moderno? Ma cos'è, poi, in fondo, la verità? Questo breve saggio ci sorprenderà con la spiazzante posizione della filosofia rispetto a tali interrogativi.
Nel 1971 due dei più influenti e noti intellettuali del XX secolo vengono invitati dal filosofo olandese Fons Elders a discutere di una vecchia questione: esiste, nella natura umana, un senso innato di giustizia indipendente dalle nostre esperienze e dalle influenze esterne? Il risultato è stato un dibattito tra i più originali e provocatori, un viaggio attraverso l'ambiguo rapporto tra morale e potere che serve anche da introduzione alle singole teorie dei due filosofi. Quello che in partenza era un discorso radicato nella linguistica (Chomsky) e nella teoria della conoscenza (Foucault) si evolve ben presto in una discussione sui più vasti argomenti, dalla scienza alla storia, dalla psicologia comportamentale alla libertà e alla lotta per la giustizia. Quella giustizia che, per Chomsky, aveva un fondamento reale, assoluto, profondamente radicato nella nostra natura e che, per Foucault, era solo uno strumento del potere.
Questo libro, scritto prima che l’autrice abbandonasse l’Ungheria e pubblicato per la prima volta in Germania nel 1978, offre spunti di riflessione ancor oggi di grande attualità. Se è vero che allo scienziato non occorre la filosofia per convalidare i propri metodi, è altrettanto vero, sostiene Heller, che è necessario ricorrere alla filosofia per rispondere alle domande: come si deve pensare? Come si deve agire? Come si deve vivere? La filosofa ungherese invita la filosofia a svegliarsi dal letargo in cui il prevalere del dominio scientifico l’ha confinata e a riguadagnare la propria radicalità di pensiero, fondata sull’unità di Vero e Bene, di teoria e prassi.
Come poter mettere in accordo la coscienza viva della nostra libertà, che ci rende pienamente responsabili delle nostre azioni, con la convinzione della necessità causale di tutti gli avvenimenti? Planck riflette sull’eterna tensione fra determinismo e libero arbitrio in due preziosi saggi, qui raccolti in volume: il primo, Legge di causalità e libero arbitrio, è il testo di un discorso pronunciato all’Accademia prussiana delle scienze il 17 febbraio 1923; il secondo, Sulla natura del libero arbitrio, è una prolusione tenuta nella sede di Lipsia della Società filosofica tedesca il 27 novembre 1936. Emerge da queste pagine non solo il fisico che cerca di spiegare i fenomeni della natura, ma anche l’epistemologo e il filosofo che scandaglia gli abissi dell’animo umano, in un mondo ormai privo di certezze.
La vita postmoderna è, dal punto di vista morale, una vita in frammenti, governata da una profonda ambivalenza etica difficile da tollerare. Una forte crisi d’identità affligge l’Occidente contemporaneo, che brancola nel buio rispetto alle più urgenti questioni etiche. Oggi le persone credono ben poco nella possibilità di fondare una morale che possa funzionare da stella polare nell’orientamento delle nostre vite. Come riattivare, dunque, la responsabilità individuale in un mondo che ha perduto ogni riferimento? Per rispondere a questa domanda Bauman si rivolge alla filosofia di Emmanuel Lévinas, che ha messo al centro del proprio pensiero un’urgenza etica infinita destinata ad essere oggi di grandissima attualità. L’essere-per-l’Altro, il faccia a faccia con il volto dell’Altro, che assume varie forme (l’indigente, lo straniero, il migrante), sono concetti oggi più che mai necessari per offrire alla cultura occidentale nuovi strumenti per rispondere alla sofferenza umana, alla fragilità e alla vulnerabilità del nostro tempo.
In questo testo considerato ormai un classico, Heller analizza in modo radicale il ruolo e l’importanza della storiografia, al cui centro vi è il concetto di storicità inteso come condizione umana. Il libro esamina le norme e i metodi della storiografia da un punto di vista filosofico, e rifiuta con fermezza le generalizzazioni offerte dalla filosofia della storia come risposta ai problemi della contemporaneità. Criticando la tradizione filosofica che l’ha preceduta, la filosofa ungherese delinea una teoria della storia intimamente intrecciata all’etica, che pone al cuore del proprio dispiegarsi la responsabilità dell’uomo nei confronti delle proprie azioni. Un pensiero che è ancora così radicale da poter essere applicato a tutte le strutture sociali dei nostri giorni.
Tutti noi siamo esposti al crescente potere della vergogna. Un potere che produce sofferenza, alienazione e una terribile solitudine. Non esiste una vera autorità capace di detenere questo potere: gli "altri" sono esecutori di un ruolo inconsapevolmente giudicante. Sull'amor di sé prevale l'amor proprio, l'amore della propria immagine. Heller analizza questo sentimento e ne scandaglia le diverse manifestazioni fenomeniche: la sua disanima è anche una critica impietosa nei confronti della società contemporanea, che ci condanna a essere schiavi dello sguardo altrui e ci rende estranei a noi stessi.
Gennaio 1944: in Europa infuria la Seconda Guerra Mondiale quando viene pubblicato questo saggio in cui Arendt riflette sulle tappe che hanno portato all'ideologia razzista del Terzo Reich. Figli di quello stesso Illuminismo a cui dobbiamo la «Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo», i semi del pensiero razzista trovarono terreno fertile in alcuni aristocratici francesi preoccupati, all'indomani della Rivoluzione, di individuare i motivi storici della loro superiorità sulle masse del Terzo Stato. Il quadro si allarga poi alla Gran Bretagna e alla Prussia fino al «Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane» del conte di Gobineau. L'affermarsi della superiorità dell'individuo, una lettura distorta del darwinismo e la politica imperialista delle potenze europee fra Otto e Novecento sono gli altri tasselli che la Arendt compone per spiegare il pensiero razzista.
Quattro saggi inediti si affiancano in questo volume a uno studio sull'eredità dell'etica marxiana e al testo, ormai classico, sulla teoria dei bisogni. Una lettura del pensiero di Marx decisamente controcorrente che - analizzando il rapporto con la modernità, la giustizia, la liberazione dell'uomo, l'ebraismo, la cultura tedesca - sottolinea l'importanza filosofica del lavoro di Marx, la cui attualità non è scalfita dal superamento delle sue teorie economiche o sociologiche ed è ancora oggi indispensabile per comprendere i caratteri fondamentali della nostra modernità e molti problemi cruciali del nostro tempo. «Karl Marx non si è mai identificato con il suo essere un tedesco o un ebreo, né con il suo essere un membro del proletariato internazionale o un marxista. È ben nota la sua affermazione: 'lo non sono un marxista, sono Karl Marx'. Quindi quando parlo di Marx come filosofo ebreo-tedesco ho in mente l'identità delle sue creazioni, della sua opera, della sua filosofia, non la sua identità personale».
Michel Foucault può ritenersi, a ragione, l'ultimo grande interprete del pensiero occidentale. Le sue posizioni spregiudicate, la straordinaria raffinatezza di un'indagine che forza i limiti della nostra "cultura", ne fanno un punto di arrivo per chiunque aspiri a una lettura intelligente del nostro tempo. Nel 1978, quando la sua filosofia andava ormai descrivendosi come una «radicale pratica dello smascheramento», Foucault rilascia questa lunga intervista. In essa, il maestro si misura con i grandi temi chiave della sua ricerca: l'archeologia del sapere, la "morte dell'uomo" negli apparati di potere, la nascita delle società repressive, la crisi delle ideologie. Un colloquio che è anche una biografia intellettuale e una continua proposta di fuga dal mondo dell'"organizzazione totale". Un'occasione unica per scoprire (o continuare a esplorare) quel magnifico laboratorio del pensiero che è stato Michel Foucault.
Per conoscere Emmanuel Lévinas e imparare ad amarlo, niente è più utile di queste interviste radiofoniche con Philippe Nemo, attraverso cui il pensiero di uno dei maggiori filosofi francesi dell'era contemporanea, uno dei pochi ad aver cercato la formulazione di una morale strutturata per il tempo presente, ci viene rivelato nella massima chiarezza. Lévinas, senza cedere al compromesso del mezzo radiofonico, si è impegnato qui a semplificare la forma espressiva dei suoi argomenti per raggiungere un pubblico più vasto che non quello della stretta cerchia di addetti ai lavori. Il corpo teorico di «Etica e infinito» è in certo modo rivoluzionario, ci rivela un autore che, nonostante una reputazione di ermetico, è ansioso di farsi capire. I temi toccati da Lévinas sono i più disparati: la Bibbia, Heidegger, il compito della filosofia, i doveri dei filosofi. Le «digressioni controllate», le provocazioni, i paradossi che ci costringe a considerare rappresentano uno dei più stimolanti luoghi del pensiero che il Novecento abbia saputo produrre.
Crisi economica e crisi della democrazia: processi dei quali non si intravede la fine, ulteriormente complicati dalla diffusione di internet e dei social, che rende sempre più urgente un ripensamento dei fondamenti della partecipazione democratica. Eppure già nel 1939, in un discorso tenuto per i suoi ottant’anni, Dewey aveva tratto spunto dagli strascichi del ’29 e dal successo dei totalitarismi nella vecchia Europa per avanzare una nuova idea: la democrazia “creativa”, che non si limita alla semplice partecipazione del cittadino, ma che si radica negli atteggiamenti e nelle esperienze quotidiane dell’individuo; una democrazia fatta di fiducia nell’uomo, nella sua capacità di confronto aritario con gli altri, dove la differenza – e la sua libera espressione – diventa occasione di arricchimento per tutti. Una proposta, quella del filosofo americano, che si rivela ancora attuale.
JOHN DEWEY (Burlington, 1859 – New York, 1952)
Pedagogista e filosofo statunitense, si è formato tra l’Università del Vermont e la Johns Hopkins di Baltimora. Ha quindi insegnato nelle università del Middle West, a Chicago e, dal 1904 al 1929, alla Columbia University di New York. Il suo pensiero in ambito sociale e politico ha avuto grande fortuna tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, al punto da renderlo il leader dei liberal americani. Le sue scoperte in ambito pedagogico e gli studi sul rapporto tra democrazia e processi educativi hanno esercitato un forte influsso in tutto il mondo.