Questo libro prende le mosse da un desiderio e da una necessità. Il desiderio è quello di intersecare più voci di donne piene di talento e di passione per quel che fanno - donne spesso assai diverse tra loro - con una narrazione che cerca di leggere le trasformazioni del presente evitando il più possibile la retorica della vittimizzazione o, al contrario, l'esaltazione di un femminile da cui estrarre solo plusvalore economico. Tra storie di vita e pensieri, ventuno donne autorevoli raccontano il proprio percorso, per dimostrare quanto le loro singole biografie, le loro esperienze e le loro scelte siano irriducibili alle narrazioni di superficie che, per fortuna o per sfortuna, a seconda delle circostanze, toccano l'universo femminile. Uno sforzo necessario, si diceva, un mosaico di testimonianze, casi esemplari e riflessioni di ampio respiro - dai rapporti di potere al mondo del lavoro, dal "gender gap" alla leadership - per dimostrare come possa essere possibile, nonostante tutto, per passione e per talento, riuscire a fare ciò che si desidera anche se si è donne.
Costruito secondo il metodo dell'inchiesta ma scritto con un linguaggio narrativo, "I brutti anatroccoli" raccoglie storie emblematiche di "ordinaria bruttezza". Uomini e donne, giovani e non più giovani, di ogni parte d'Italia e di diversa estrazione sociale, culturale, professionale e religiosa, raccontano la propria esistenza a partire da questa singolare prospettiva: la bruttezza fisica. Uno dei più misteriosi scacchi esistenziali, ma anche uno dei più rimossi e potenti tabu del nostro tempo, in un libro singolare e controcorrente, che continua a sfidare i luoghi comuni di ogni epoca e cultura. Con una prefazione dell'autore.
La globalizzazione ha rimesso in primo piano il globo, cioè la Terra, come se, ormai stanco, Atlante fosse fuggito abbandonandolo fluttuante nello spazio. Alla sicurezza stanziale garantita dallo Stato si è sostituita l'infinita mobilità di conoscenze, capitali, merci e persone. Una mobilità non soltanto fisica ma anche cognitiva: riferita cioè allo stato del pianeta e al rapporto fra natura e razionalità tecnica, ma pure alla forma trans-locale, trans-nazionale dei saperi, della conoscenza, dei processi istituzionali necessari a fronteggiare la crisi profonda che si è aperta. L'attuale dimensione globale del mondo impone un nuovo orientamento nel pensiero. Parafrasando Cocteau, è come se il Minotauro avesse inghiottito il labirinto. "Terra mobile" parte da qui, proponendo al lettore un nuovo approccio al tema dello spazio non solo da parte delle discipline territoriali ma anche del pensiero giuridico, che vede lo spazio sfuggire alla tradizionale dimensione regolativa nazionale e internazionale, del pensiero sociologico che ha sin qui ragionato per strutture sociali endogene, del pensiero filosofico, geografico, storico e antropologico. "Terra mobile" è un atlante per pensare e agire dentro l'attuale, confusa transizione globale, coniugando pluralità di punti di vista e unità di obiettivi, e si avvale dei contributi di sociologi, filosofi, geografi, giuristi e storici.
La crisi che stiamo vivendo è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale imprevedibile: un terremoto, uno tsunami. Oppure come un incidente capitato a un sistema, quello finanziario, che di per sé funzionava perfettamente. In realtà è stata il risultato di una risposta sbagliata, di ordine finanziario, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale in corso da lungo tempo. E non, come afferma Bruxelles, il prodotto del debito eccessivo che gli Stati avrebbero contratto a causa della crescente spesa sociale. Al contrario è stato favorito lo sviluppo senza limite delle attività speculative dei grandi gruppi finanziari. Avere lasciato il potere di creare denaro per nove decimi alle banche private è un difetto che sta minando alla base l'economia. E questo con la complicità dell'intero sistema politico e finanziario (la Bce, la Fed, la Banca d'Inghilterra, i fondi speculativi e quelli sovrani, i governi e la Commissione europea). Poche decine di migliaia di individui, i responsabili, contro decine di milioni di vittime. Senza contare che per rimediare ai guasti del sistema finanziario le politiche di austerità stanno generando pesanti recessioni: nell'intento di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione della ricchezza dal basso verso l'alto in atto da oltre trent'anni.
Che cosa significa "noi"? Come si stratificano le appartenenze identitarie che, cristallizzando un sistema di confini e di soglie in coppie oppositive (uomo-donna, uomo-animale, bianco-nero, civiltà-barbarie) portano alla gerarchizzazione del vivente e alla creazione di sistemi politici, religiosi e ideologici? Come si legittimano i molti cerchi di gesso entro i quali perpetuiamo la nostra narrazione del mondo, fino a farli apparire ai nostri stessi occhi non più culturali, ma naturali e innati? Quando il noi buono, positivo, diventa disprezzo dell'altro, fino a volgersi in sterminio? Da queste domande prende avvio un dialogo tra i due autori: un genetista noto nel mondo per aver dimostrato l'inservibilità del concetto di razza applicato agli uomini e una studiosa che da tempo si occupa della testimonianza dei genocidi del Novecento. Si apre cosi un album di famiglia che include i 10000 anni in cui Homo sapiens sapiens, dopo aver soppiantato le altre specie umane, ha codificato l'egoismo e la sopraffazione in istituzioni sociali e politiche, basate sulla proprietà privata, la guerra e lo schiavismo. Ma, spingendo lo sguardo più oltre, fino alla famiglia originaria, scopriamo altri modi del noi che non prevedevano gerarchie sociali: una cultura che l'istituirsi di un noi egemone - bianco, maschio, dotato di logos - ha reso necessario dipingere come un'infanzia di bruti.
Davvero, come si sente dire sempre più spesso, la nostra civiltà sta assistendo a un mutamento antropologico? O i cambiamenti in corso sono piuttosto nell'ordine di un grande sconvolgimento culturale? A oltre ottant'anni dalle diagnosi formulate da Freud tra le pagine del "Disagio nella civiltà", questo libro tenta di aggiornarne le tesi, proponendo una lettura dei fenomeni attuali abbastanza ampia da chiamare in causa la costituzione biologica della specie umana e abbastanza articolata da mettere a fuoco i reciproci riflessi della dimensione psichica e di quella collettiva. La sfida è quella di offrire nuove prospettive alle domande non solo teoriche, ma innanzitutto pratiche, imposte dalla nostra contingenza storica, evitando di inscatolare la complessità dei fenomeni in categorie astratte. Un dialogo a quattro voci per sondare il senso delle nuove declinazioni della sofferenza mentale, e indagare l'intreccio fra dimensione psicologica, politica e sociale, cercando di verificare quanto ci sia di vero e quanto di infondato nelle ipotesi sulla degenerazione dell'uomo contemporaneo e sulla caduta in una nuova barbarie. Per innescare, cosi, una ripresa del dibattito sulla natura umana.
Mega-macchine sociali: sono le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell'antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente (appunto come parti di una macchina) decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l'apparato amministrativo-militare dell'impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l'esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell'Urss. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sottosistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona. Cosi da abbracciare ogni momento e aspetto dell'esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all'estinzione. Perché il finanzcapitalismo ha come motore non più la produzione di merci ma il sistema finanziario. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro. In un crescendo patologico che ci appare sempre più fuori controllo.
Definiamo la nostra epoca moderna, ma cosa significa "moderna" e come può una riflessione sulla "modernità" aiutarci a capire il mondo contemporaneo? Ecco le principali domande alle quali Peter Wagner intende rispondere con questo suo sintetico ed esemplare saggio che riconsidera il problema delle origini occidentali della modernità e delle sue pretese di aver inaugurato una nuova e migliore epoca nella storia dell'umanità. Le rivendicazioni e le aspettative tipiche della modernità sono ormai largamente condivise, ma nel corso della loro realizzazione e diffusione hanno subito radicali trasformazioni. Nella sua coinvolgente analisi, Wagner esamina alcune questioni fondamentali: la modernità si è basata sulla speranza della libertà e della ragione, ma ha creato le istituzioni del capitalismo contemporaneo e della democrazia. Che rapporto intercorre tra la libertà del cittadino e la libertà del venditore e del consumatore oggi? Cosa implicano le varie forme di critica al capitalismo e alla democrazia per la sostenibilità della modernità? A prescindere da tutte le sfumature e le ambiguità, il nostro concetto di modernità è comunque inestricabilmente legato alla storia dell'Europa e dell'Occidente. Come possiamo paragonare forme diverse di modernità in modo "simmetrico", imparziale e non eurocentrico? Come possiamo sviluppare una sociologia-mondo della modernità?
Bambini maleducati, adolescenti senza regole, ragazzi ubriachi all'alba in una qualsiasi via di una qualsiasi città. Bullismo, indifferenza. Giovani senza occupazione che, invece di prendere in mano la propria vita, vegetano senza studiare né lavorare. Genitori che si lamentano di una generazione arresa, una generazione senza passioni, che sembra aver perso anche la capacità di stupirsi. Ma chi si è arreso per primo, se non i genitori stessi? Chi per primo ha smarrito lo stupore e l'indignazione? Chi, dicendo sempre sì, ha sottratto alle nuove generazioni l'essenziale, ossia il desiderio? I genitori "invertebrati", quelli che difendono i figli a priori, quelli che salvaguardano un quotidiano quieto vivere privo di emozioni e ambizioni, dove rimbomba soltanto l'elenco delle lamentele contro la società e la politica. Come se questo mondo non l'avessero creato proprio loro. Un pamphlet severo ma anche pieno di speranza, con cui Crepet ribadisce tenacemente che educare significa soprattutto preparare le nuove generazioni alle difficili, ma anche meravigliose, sfide del futuro.