Queste sono pagine preziose per serbare memoria e confermare una scelta di servizio fraterno rivolto a chi è più solo e fragile
Mentre il mondo è attanagliato dal covid, in Myanmar si scatena un colpo di stato. Lesercito imbavaglia la fragile democrazia birmana, incarnata dalla leader Aung San Suu Kyi, messa agli arresti. Ma -sorpresa! - il popolo non sta alla finestra e scende in piazza. Nascono dimostrazioni di massa animate da giovani che chiedono il ritorno della democrazia. Scatta la repressione militare, con uccisioni, arresti e violenze. Un film già visto altre volte. Ma quanto accade il 28 febbraio 2021 ferma l'orologio della storia. Una suora affronta, in ginocchio, un plotone di soldati pronti a sparare sui manifestanti che a Myitkyina, come in altre città, chiedono libertà. Suor Ann Rose Tawng si pone a protezione dei giovani dimostranti, mettendo a repentaglio la propria vita in nome del vangelo e della dignità umana. La memoria corre a Tank Man, l'uomo diventato famoso perchè si mise davanti ai carri armati cinesi durante la repressione di Piazza Tienanmen: di lui non si è saputo più nulla. La storia di Ann Rose, invece, la possiamo conoscere in queste pagine.
C’è quello che ha «trovato» Cristo tra le fogne di Hong Kong e quella che, rapita in Sierra Leone, ha visto con i propri occhi atrocità inimmaginabili. C’è il domenicano che predica in ogni angolo del mondo e il poeta-teologo che dialoga con il premio Nobel anticlericale. C’è la suora che è stata al fianco di Madre Teresa di Calcutta e il prete che accompagnava Bergoglio nelle bidonville di Buenos Aires.
I missionari sono sempre persone affascinanti: il loro andare in terre lontane, immedesimandosi in culture diverse, affrontando rischi e rimanendo accanto a chi non ha nulla, li colloca, nell’immaginario collettivo, come le «truppe scelte» della chiesa.
In queste pagine alcuni e alcune di loro si svelano nella loro disarmante semplicità. Raccontano perché si sono consacrati interamente al vangelo, confessano dubbi e fatiche, ripercorrono gioie e sconfitte, manifestano lo stupore di vedere Dio all’opera, sempre e comunque.
Monica Mondo interloquisce in modo autentico con questi uomini e donne che hanno lasciato tutto per ricevere il centuplo quaggiù. Hanno affrontato guerre e trafficanti di uomini, hanno toccato il dolore innocente e l’incredulità delle società benestanti, non si sono arresi di fronte ai muri o al terrorismo.
Le loro parole ci insegnano che la fede cristiana è un’indomabile fonte di speranza che abbraccia ogni condizione umana.
17 ottobre 1998. Jacques Dupuis, gesuita, uno dei teologi più famosi al mondo, professore all’Università Gregoriana di Roma, viene sollevato dall’insegnamento: l’ex Sant’Uffizio lo accusa di «gravi errori, ambiguità dottrinali e opinioni pericolose». Scoppia il «caso-Dupuis», che vede la Congregazione per la dottrina della fede guidata dal cardinal Ratzinger mettere sotto accusa il teologo sostenitore di una visione positiva della pluralità delle fedi. Jacques Dupuis vive sulla propria pelle, fino alle estreme conseguenze (lo stress del processo vaticano gli ha causato scompensi fisici che ne hanno causato la morte), l’anonima durezza dell’inquisizione ecclesiastica: delazioni, indagini segrete, accuse poi ritrattate, terra bruciata intorno, continui sospetti.
Per 36 anni missionario e insegnante in India, consulente della Santa Sede per il dialogo interreligioso, per più di dieci anni docente alla Gregoriana, poco prima di morire padre Dupuis aveva concesso un’ampia intervista al giornalista americano Gerard O’Connell, rimasta finora inedita. In queste pagine egli ricostruisce la sua vicenda biografica ed intellettuale, facendo nomi e cognomi di quanti hanno voluto piegarne – senza successo – la profezia: l’avversione del Vaticano per la sua teologia del pluralismo religioso; le ragioni in base alle quali ne ha confutato le accuse grazie all’appoggio di vari colleghi; il confronto con Ratzinger e i suoi collaboratori (i cardinali Bertone, Amato e altri), tutti incapaci, secondo il teologo belga, di cogliere la verità della sua proposta, che univa l’indefessa fede nell’unicità salvifica di Gesù Cristo all’apertura verso le altre religioni comprese come vie di salvezza.
Si tratta quindi di un libro molto importante che, attingendo a documenti vaticani segreti, racconta le modalità dei processi dottrinali sotto Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger, per 25 anni custode dell’ortodossia cattolica e in seguito eletto papa. Leggere queste pagine significa fare i conti con una vicenda non sanata nella chiesa, i cui vertici hanno messo sotto accusa un uomo che amava affermare: «Posso dire in tutta sincerità che Gesù Cristo è stato l’unica passione della mia vita».
«L’ultimo testamento di Jacques Dupuis» Il Regno
«L’opera di Dupuis ha toccato un nervo scoperto» La Lettura – Corriere della Sera
«Basta, stanno morendo tutti, non si può continuare così, dobbiamo fare qualcosa. Non abbiamo niente, ma possiamo aprire la nostra casa».
E così avvenne: l’8 giugno 2015, la famiglia di Antonio Calò e Nicoletta Ferrara si è aperta, anzi spalancata. Oltre ai 4 figli avuti in 30 anni di matrimonio, ecco entrare nella casa di questi insegnanti trevigiani 6 nuovi figli: Ibrahim, Tidjane, Sahiou, Mohamed, Saeed, Siaka. Giovani musulmani provenienti da Gambia, Guinea-Bissau, Ghana, Costa d’Avorio, sbarcati in Italia alla ricerca di un futuro migliore di quello lasciato alle spalle: povertà, persecuzioni e miseria in patria, violenze e torture in Libia, il rischio di un naufragio sui barconi del Mediterraneo.
Nicoletta Ferrara, la mamma, ci racconta giorno per giorno il formarsi di questa inedita famiglia: 12 persone tra cucina e soggiorno; le lingue wolof, mandingo e fula mescolate all’italiano come la pastasciutta e i cibi africani; le regole di casa: scuola e lavoro. E poi le lungaggini della burocrazia, ma anche il sostegno di tanti amici. E il bene che si fa contagio intorno.
«La nostra casa non è più nostra. È casa per chi non ha casa», scrive Ferrara spiegando il perché di una scelta radicata in una visione cristiana delle cose. Una decisione profetica, che brilla in queste pagine intense e appassionanti.
Due amici: Pierre Claverie, un vescovo cattolico, Mohamed Bouchikhi, un giovane musulmano. Il primo ha scelto di restare in Algeria per testimoniare Cristo dentro la violenza del terrorismo. Il secondo ha deciso di diventare il suo autista. Intorno a questi due personaggi, reali come la vita e la morte, infuria la guerra civile: siamo nell’Algeria degli anni Novanta, 150mila morti ammazzati nello scontro fratricida fra integralisti islamici e militari. Queste due voci raccontano un’amicizia in grado di vincere, spiritualmente, anche la morte: il vescovo Pierre che resta a fianco del suo popolo come chi rimane «al capezzale di un fratello ammalato, in silenzio, stringendogli la mano». Per questo motivo oggi la chiesa lo riconosce martire. E l’autista Mohamed, ben consapevole del rischio, che resta accanto all’amico cristiano in pericolo di vita. Fino alla fine, fino a quel drammatico 1° agosto 1996. In queste pagine Pierre e Mohamed, ricostruiti con squisita profondità e impareggiabile delicatezza da Adrien Candiard, ci trasmettono un’incrollabile verità: «Amare non è forse preferire l’altro alla propria vita? Senza la morte non ci sarebbe nulla da preferire a noi stessi».
«Bianco e nero, e basta: non funziona così. E soprattutto non funziona così alcun dialogo. L'analisi delle differenze è nemica della spettacolarizzazione emotiva e della mobilitazione. Quando si vive in regioni come la nostra, allora tutto diventa più frammentario, perché noi facciamo altre esperienze». Dal 2003 Paul Hinder è vescovo nella Penisola araba, la terra sacra per ogni musulmano perché qui Maometto fondò la religione ispirata dal Corano. In queste pagine, per la prima volta un vescovo cattolico racconta cosa significa vivere da cristiani nei Paesi governati dagli sceicchi dei petrodollari, dove la fede islamica avvolge ogni aspetto della vita e non esiste libertà religiosa, ma solo di culto. La testimonianza del vescovo Hinder è preziosa perché racconta in presa diretta le difficoltà, le speranze e le conquiste di quel dialogo tra cristiani e musulmani che resta una delle chiavi per la pace nel mondo. Alieno da ogni faciloneria nel confronto interreligioso, realista nell'affrontare gli snodi di una convivenza socio-religiosa che interpella anche l'Occidente, Hinder offre un esempio di quell'ottimismo della speranza proprio di chi vive la fede cristiana come ragione di vita. E per questo non ha né paura dell'altro né vergogna della propria tradizione.
Sessantamila malati psichici accolti in 25 anni in quattro paesi africani. Pur non essendo né laureato in medicina né psichiatra di professione, Grégoire Ahongbonon ha compiuto un piccolo grande miracolo nel suo impegno fra Costa d'Avorio, Benin, Togo e Burkina Faso. Questo marito e padre di famiglia, un passato da imprenditore, è diventato un paladino degli «ultimi tra gli ultimi» in Africa: le persone con malattie psichiche, stigmatizzate due volte perché additate come vittime di stregoneria e spesso prigioniere di pseudo-santoni che le incatenano con disumanità nell'intento di «liberarle» grazie a sortilegi magici. La malattia psichiatrica in vari contesti africani significa emarginazione, catene, prigionia, limitazione della libertà. E un mare di sofferenza. Per Grégoire, «fino a quando ci saranno un uomo o una donna incatenati, tutta l'umanità sarà incatenata». Per questo dagli anni Novanta si dedica anima e corpo a liberare, accogliere e integrare - attraverso un approccio che l'Oms ha voluto studiare - le persone rese fragili dalla vita. Come Janine, una donna malata incatenata per 36 lunghissimi anni, che Grégoire ha accolto in uno dei tanti centri da lui fondati, oggi la nuova casa per 25mila malati che diventano talvolta guaritori di altri sofferenti. Quella di Grégoire Ahongbonon è un'epopea di carità e di fede che rappresenta una luce di indomita speranza dentro il dolore del mondo. Prefazione di Eugenio Borgna.
«Plata o plomo»: soldi o una pallottola. Ogni anno in Messico transitano mezzo milione di migranti indocumentados che dal Centroamerica in preda alla violenza tentano di raggiungere gli Stati Uniti in cerca di un futuro migliore. Sulla loro strada trovano la ferocia dei narcos, banditi che - oltre a far soldi con la droga - si arricchiscono sulla pelle dei migranti grazie a rapimenti, traffici di organi, schiavismo e prostituzione. Alejandro Solalinde non è rimasto a guardare. Dopo una vita da prete «normale», ha iniziato ad aprire le porte del cuore e di casa agli stranieri che cercavano un rifugio, un pezzo di pane, una parola di conforto. Non ha taciuto, padre Alejandro: ha denunciato i soprusi dei trafficanti, le connivenze della politica, la corruzione della polizia. I narcos gliel’hanno giurata: sulla sua testa pende una taglia di 1 milione di dollari. Di qui le minacce, i tentati omicidi, una scorta di 4 uomini per difendere un uomo che difende gli indifesi.
La vicenda di padre Alejandro - per la prima volta qui raccontata da Lucia Capuzzi - si intreccia con i 20 mila migranti rapiti ogni anno in Messico, uomini, donne e bambini che spariscono nel nulla. E con i 20 mila indocumentados accolti da questo prete tenace. Persone alle quali Solalinde dedica la vita in nome di quel Dio schieratosi dalla parte degli ultimi.
«I sequestri. Cominciarono senza che ce ne accorgessimo. Gruppi di migranti sparivano. Mi misi ad indagare. I conti non tornavano. Era evidente che molti si perdevano per strada. Dove finivano? Con molta pazienza riuscimmo a ricostruire la macchina dei sequestri. Ero un prete: mi occupavo di teologia e psicologia. Capii che mi stavo per infilare in un enorme guaio. Eppure non potevo né volevo evitarlo. Non c’era tempo per pensare a me. C’erano delle persone indifese in pericolo, in tremendo pericolo. Sapevo che dovevo fare qualcosa» Alejandro Solalinde
«Aveva fabbricato tutte le finestre, le lanterne, le vetrate, i candelabri e le croci di tutte le chiese». Per questo, scrisse Tiziano Terzani, il missionario fratel Felice Tantardini era «conosciuto da tutti», in Birmania, come «fabbro di Dio». Quanto al nome Felice, egli stesso lo aveva assunto a ideale della sua vita: «Sforzarmi di essere felice, sempre e a ogni costo, intento a far felici anche gli altri». Pronto a spostarsi, a piedi, da una missione all'altra perché tutti lo volevano, in missione è rimasto settant'anni. Le sue memorie autobiografiche lo mostrano instancabile, tenace, fedele nel quotidiano, al servizio di chi aveva bisogno. Un santo, secondo la fama che tuttora lo accompagna e che spinge tanti a implorarne l'intercessione. Sempre armato di un «sorriso sereno», come di chi - disse il confratello padre Clemente Vismara, oggi beato - «è amico di Dio, amico degli uomini e nemico di nessuno».
Il martire della porta accanto. Lo si può definire così Daniele Badiali, missionario in Perù con l'Operazione Mato Grosso, una realtà giovanile dedita alla solidarietà con i poveri. Una figura splendida e drammatica, Daniele. Da giovane suonava le canzoni di Guccini e Bennato, da prete usava l'amata chitarra per animare le messe sulle Ande, dove arriva nel 1991. Nel 1997 viene assassinato in Perù, quando si offre volontario al posto di un'amica durante un rapimento. Daniele - di cui è in corso la causa di beatificazione - è un uomo moderno, la cui vicenda ha entusiasmato molte persone per la sua dedizione totale agli ultimi, non per pietismo bensì secondo una solidarietà autentica: «Vivere in mezzo ai poveri vuol dire scoprire che il vero povero sono io, che io ho bisogno di essere aiutato, salvato più di loro». Mentre annunciava il Vangelo, padre Badiali cercava in maniera incessante Dio. Un amore appassionato per Dio e i poveri: Gerolamo Fazzini, che ha incontrato amici e parenti di Daniele in Perù e in Italia, ricostruisce su questi due binari l'avventura di padre Badiali. Un credente autentico, dalla fede inquieta e mai appagata.
Da giovane venne ammesso «con riserva» in seminario: il suo sogno era diventare medico. Oggi è uno dei cardinali più noti al mondo. Mentre studiava teologia negli Stati Uniti si manteneva battendo a macchina le tesi dei suoi compagni. Ora è considerato uno dei porporati più stimati da papa Francesco. Il suo curriculum vitae parla di vari incarichi di prestigio in Vaticano, ma per lui tutto questo è solo servizio: «Mi stupisco ogni volta che mi chiamano “Eminenza”. Per me io resto sempre padre Chito, un semplice prete per i poveri».
Conoscere Luis Antonio Tagle genera continue sorprese. I suoi incontri e pronunciamenti testimoniano una vicinanza radicalmente evangelica agli emarginati, ai più disprezzati, agli esclusi. Che per questo cardinale d’Asia sono stati e sono tuttora maestri di vita. Dall’infanzia a Manila all’impegno come prete di periferia e teologo stimato da Joseph Ratzinger. Dalle prese di posizione di vescovo vicino a chi soffre al confronto con le grandi questioni del nostro tempo (la globalizzazione, l’ecologia, il dialogo con le altre fedi…): in queste pagine Tagle offre la sua lucida visione del mondo e del cristianesimo. E delinea uno stile di presenza cristiana per il nostro tempo: «La Chiesa non può essere sempre nostalgica dei “bei giorni passati”. Deve trovare i modi per proclamare che il Vangelo è adatto per questo mondo, non per quello di un’altra epoca».