"L'immigrazione, che contribuisce e contribuirà sempre più alla crescita demografica del Vecchio Mondo, pone le nazioni europee e l'Europa stessa di fronte alla questione della propria identità. Siamo individui spontaneamente cosmopoliti che ora, a causa dello shock dell'alterità, scoprono il loro essere. Scoperta preziosa, ma anche pericolosa: dobbiamo combattere a tutti i costi la tentazione etnocentrica di perseguire le differenze e di erigerci a modello ideale, senza per questo soccombere alla tentazione penitenziale di rinnegare noi stessi per espiare le nostre colpe. La buona coscienza ci è preclusa, ma ci sono dei limiti anche alla cattiva coscienza. La nostra eredità, che non fa certo di noi degli esseri superiori, merita di essere preservata, nutrita e trasmessa tanto agli autoctoni quanto ai nuovi arrivati. Resta da capire, in un mondo che sostituisce l'arte di leggere con l'interconnessione permanente e che stigmatizza l'elitarismo culturale in nome dell'uguaglianza, se c'è ancora qualcosa da ereditare e trasmettere." (A.F.)
Era il 1969 quando Dario Fo e Franca Rame portarono in scena per la prima volta quel "Mistero Buffo" nato per irridere i santi e i fanti secondo lo stile delle rappresentazioni medievali, secondo lo sguardo dei diseredati e dei dimenticati. Negli anni il "Mistero" è cresciuto e si è moltiplicato, si sono aggiunte molte storie, attinte dalle cronache "di giornata". Così Giuseppina Manin ha proposto a Dario Fo di ripensare ai tanti altri "misteri", pochissimo buffi ma terribili e grotteschi, che in questo mezzo secolo hanno scosso, minato, devastato il nostro Paese. E insieme sono partiti per un viaggio nella memoria attraverso una serie di "giullarate" per narrare un'Italia di nuovo "in gran tempesta". Punto di partenza, l'improvvisa e inspiegabile scomparsa del cavaliere Silvio Berlusconi, che avviene qualche tempo dopo la giubilazione del suo governo. Sconcerto, sollievo, cordoglio, confusione, finché l'ex premier riappare e racconta di essere stato, novello Dante, niente meno che all'Inferno, tra i protagonisti dei grandi misteri d'Italia, dalla strage alla Banca dell'Agricoltura al DC9, dal rapimento Moro allo scandalo delle escort. Un percorso lietamente sgangherato, grottesco e paradossale, che improvvisa gli andamenti a seconda dello spasso che ogni storia riesce a procurare. Per scovare, alla maniera di Fo, fra tante menzogne, uno squarcio di verità.
Rinnovamento o restaurazione? L'Italia è un Paese di funamboli in bilico tra queste due scelte. Vogliamo novità: ed ecco lo tsunami grillino. Ma vogliamo anche stabilità: voilà il governissimo. Intanto succede di tutto: presidenti uscenti che rientrano, elezioni "non perse" ma neanche vinte, ex premier dati per spacciati che risorgono, candidati che cadono crivellati dai colpi dei franchi tiratori. Scene dal declino di un impero? O fotogrammi di un nuovo Sessantotto? Dario Fo veste i panni del saggio giullare per raccontare la corte senza più miracoli della politica allo sbando. Spiega, dall'ottica privilegiata del collega clown, chi è e dove va Beppe Grillo, il castigamatti sbucato dalla Rete per travolgere un intero sistema di potere. Indaga le radici dell'autolesionismo in fase terminale che ha annientato in poche settimane gli eredi dell'onorato Pci. E ricordando altre rivoluzioni e altre piazze, ricostruisce in pochi tratti scanzonati e veri il filo di una narrazione del nostro passato e del nostro presente. Restituendoci, con rabbia e speranza, il senso del futuro.
"Il mondo ha un disperato bisogno di essere migliorato." Ma troppo spesso ci sentiamo scoraggiati, delusi, incapaci di muovere un passo. E ci rassegniamo all'idea che cambiare il mondo sia difficile, o persino impossibile. Promuovere attivamente il cambiamento, però, farebbe bene non soltanto al mondo e agli altri, ma anche a noi stessi: in nome di un attivismo che rievoca la "saggezza pratica" aristotelica e insieme il più tipico pragmatismo britannico, John-Paul Flintoff ci chiede di attingere alle nostre innate riserve di coraggio, empatia e creatività, e di agire. Non è necessario essere carismatici, come i personaggi che hanno letteralmente segnato la nostra storia, per esempio il Mahatma Gandhi o Nelson Mandela, basta fare qualcosa, anche un solo gesto, per dare inizio al cambiamento. L'autore vuole dimostrare che la trasformazione autentica parte dagli individui e dalle cose concrete. Non si tratta - non sempre, almeno - di affrontare momenti epocali come la rivendicazione dei diritti civili, la lotta al razzismo o i negoziati di pace tra le nazioni. Sono proprio le piccole azioni quotidiane a innescare il cambiamento più vero e duraturo, e il loro valore non è inferiore alle grandi lotte sociali. Basta darsi da fare, un passo dopo l'altro.
Nitido e scritto a macchina, il biglietto in busta sigillata infilato sotto la porta confermava l'appuntamento. Arundhati Roy aspettava questa notizia da mesi, era pronta: doveva farsi trovare al tempio di Ma Danteshwari nell'orario e nel giorno stabiliti, con la macchina fotografica, il tika e una noce di cocco. In questo modo il pericoloso ribelle adivasi che avrebbe incontrato, a sua volta provvisto di cappellino, rivista hindi "Outlook" e banane, avrebbe potuto riconoscerla. Ad accoglierla, però, c'era un ragazzino dall'aria tutt'altro che minacciosa, e per giunta senza giornale né banane, veloce spuntino consumato per ingannare l'attesa. Molto poco professionale per chi costituiva "la più grande minaccia per la sicurezza interna" dell'India, come sostenuto senza mezzi termini dal primo ministro Chidambaram in persona. Comincia così questa coraggiosa e sorprendente ricognizione attraverso un'India sconosciuta, il cui orizzonte fisico ed economico negli ultimi decenni è stato completamente ridisegnato dalle multinazionali. Con la connivenza del governo, le grandi aziende si sono impadronite delle terre, delle foreste, delle vite delle popolazioni locali in maniera del tutto illegittima e anticostituzionale. Ma i poveri di questi villaggi hanno deciso di fare fronte comune e di unirsi alla ribellione maoista per guidare la più grande democrazia del mondo verso un futuro alternativo al capitalismo selvaggio e all'avidità dilagante
Mondo religioso e mondo secolare sono davvero così distanti e inconciliabili? La fede deve per forza rimanere relegata in ambiti dell'esperienza preclusi ai non credenti? Alain de Botton è sicuro di no. Secondo l'autore, infatti, "si può rimanere atei convinti riuscendo, almeno sporadicamente, a trovare nella religione una qualche utilità, un qualche motivo di interesse o fonte di conforto, e prendendo in considerazione l'ipotesi di adattare alla vita laica alcune norme e consuetudini religiose". Osservando senza pregiudizi l'ascendente che le istituzioni religiose esercitano sui fedeli, De Botton si interroga sull'opportunità di sfruttare certi meccanismi - spogliati del loro lato trascendente - per contrastare la disgregazione del senso di comunità nella società laica moderna, e per far fronte alle fragilità che minano l'equilibrio di tutti gli esseri umani. La complessità liturgica della messa, per esempio, con le sue norme ben definite a regolare le interazioni tra sconosciuti, può aiutare a cementare lo spirito di gruppo, mentre festività come lo Yom Kippur dimostrano che l'elaborazione istituzionalizzata di sentimenti negativi come la rabbia è un espediente efficacissimo per la risoluzione dei conflitti sociali. È anche nel campo dell'istruzione, quale potenziale dirompente avrebbe un corso universitario che insegnasse a leggere i classici per rispondere ai bisogni dell'anima, adottando Madame Bovary e Anna Karenina come libri di testo sulle difficoltà del matrimonio?
Questo libro è una battaglia, perché la cultura non abbandoni la nostra vita e prima di ogni altro luogo la nostra scuola, rendendo il futuro di tutti noi un deserto. È anche un atto di accusa alla mia generazione, che ha compiuto alcune scelte disastrose e non manifesta oggi il minimo pentimento. Infine, è la mia personale preghiera ai giovani, perché scelgano loro, in prima persona, la vita che vorranno, ignorando ogni pressione, sociale e soprattutto famigliare. E perché, in un mondo che li vezzeggia, li compatisce, e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, essi con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono.
Diventare anche solo scrittori a volte non è facile. Ma chi voglia diventare scrittore inutile deve esercitarsi. Esistono le scuole per questo. Una scuola di scrittura che si rispetti introdurrà l’allievo al vizio, che è raccomandato, e sarà perciò formata da sette docenti come le materie, ovvero i vizi, insegnabili. Per compilare questo manualetto un allievo principiante si è sottoposto alle sette lezioni dei sette maestri: di lussuria, gola, avarizia, accidia, invidia, ira e superbia. E, combinando i vizi con le evenienze, ha raccolto e ordinato, come spiega una tabella in calce alle Avvertenze, i quarantanove casi possibili.
Ci sono scrittori che vivono con bambole gonfiabili e hanno uno o più allievi, gonfiabili; scrittori schiavi di altri scrittori; scrittori in disuso mantenuti presso case editrici; scrittori che non contano, scrittori sull’albero, scrittori alti e scrittori pinguini. Al termine, la «lezione», in modo che, seguendo i precetti, coloro che aspirano all’invitante occasione possano accedervi agevolmente. «Occorre insistere... fin che improvvisamente non si apre una nuova visuale e si resta lì, muti, molli e incapaci del tutto».
Ermanno Cavazzoni è nato nel 1947 a Reggio Emilia e vive a Bologna dove insegna all’Università. È autore di racconti contenuti in Narratori delle riserve a cura di Gianni Celati, di Le tentazioni di Girolamo (Bollati Boringhieri, 1991), degli scherzi letterari di I sette cuori (Bollati Boringhieri, 1992), della traduzione scherzosa e infedele di Le leggende dei santi di Jacopo da Varagine (Bollati Boringhieri, 1993), della raccolta Vite brevi di idioti (Feltrinelli, 1994), di Cirenaica (Einaudi, 1999) e di Il limbo delle fantasticazioni (Quodlibet, 2009) È stato tra i curatori della rivista «Il semplice».
Nell’aprile del 2009 un uomo politico di settantadue anni, l’uomo più ricco del Paese, nonché Presidente del consiglio in carica, si presenta in un ristorante della periferia di Napoli per partecipare ai festeggiamenti dei diciotto anni di una ragazza. La notizia, corredata di foto, sarà riportata su tutti i giornali. Dovrebbe essere «scandalo», e invece nessuno, o quasi, parla di vergogna. Perché? Che si tratti di un sentimento in via di scomparsa? Ma cos’è esattamente la vergogna, che tipo d’affetto costituisce? Perché differisce dalla colpa e dal pudore?
Il libro di Marco Belpoliti parte da questo fatto di cronaca per poi allargarsi e diventare subito un’indagine a tutto campo sulla vergogna stessa nell’attuale società, segnata dalla cultura del narcisismo e dal dominio delle immagini. Scritto come un racconto, questo saggio ci conduce nel carcere iracheno di Abu Ghraib, a Tokyo, nelle camerette degli hikikomori, a Città del Capo in compagnia di J.M. Coetzee, a New York con Andy Warhol, e nella Londra multietnica di Salman Rushdie; ritorna a Nagasaki, ritratta da un fotografo giapponese subito dopo l’esplosione atomica e visitata da Günther Anders, e poi va nella Las Vegas del porno di David Foster Wallace. Due scrittori attraversano le pagine con le loro riflessioni: Primo Levi e Franz Kafka.
Nell'aprile del 2001 milioni di italiani hanno ricevuto un fotoromanzo elettorale, "Una storia italiana", dove Silvio Berlusconi presentava la storia della propria vita attraverso parole e immagini. Un album ricco di fotografie del Capo. Perché il creatore della neotelevisione ama così tanto le fotografie, perché ricorre alle immagini fisse per descrivere la propria persona? Questo libro racconta la vicenda del rapporto tra il tycoon televisivo e la fotografia a partire dagli anni Settanta, quando Berlusconi era un semisconosciuto imprenditore edile, sino ad arrivare alle sue ultime immagini: dalle pose all'Alain Delon degli anni Ottanta agli scatti che lo ritraggono nelle vesti di futuro capo di Stato del decennio successivo, dalle foto familiari a quelle elettorali. Il saggio descrive il modo in cui il magnate di Arcore ha usato, sia come imprenditore sia ai fini della sua strategia politica, il proprio corpo, e questo attraverso le foto ufficiali e non; ma ragiona anche sull'uso del corpo da parte dei politici postmoderni, e sulle similitudini tra il corpo di Mussolini e quello di Berlusconi. Dai trapianti di capelli alla bandana, dal ritocco fotografico alla chirurgia estetica, il corpo del Capo è diventato la metafora vivente della nostra stessa idea di corpo, della sua durata nel tempo, del suo valore e del suo sfruttamento economico.
Il volume è una raccolta di saggi sui grandi temi sui quali Arundhati Roy è impegnata in prima persona: dalla battaglia per la democrazia in India, con una analisi della classe politica indiana che ha corroso il midollo della democrazia parlamentare laica per il proprio tornaconto elettorale; agli spaventosi "giochi nucleari" in cui sono coinvolti India e Pakistan; al come contrastare l'Impero, che non è soltanto il governo statunitense e i suoi satelliti europei, la Banca mondiale o il fondo monetario internazionale, ma è qualcosa di più. In molti paesi l'Impero ha generato sottoprodotti pericolosi: nazionalismo, fanatismo religioso, fascismo e terrorismo.