È vero che il web è pericoloso per i bambini? Genitori e insegnanti, che si servono spesso della rete a casa propria e nella vita privata, pare che ne abbiano paura quando si tratta dei loro figli o dei loro allievi. Gli adulti amano la tecnologia, i bambini e gli adolescenti anche, ma, paradossalmente, non riescono mai a usarla insieme. Come uscire da questo "blocco comunicativo" intergenerazionale e riuscire a far sedere genitori e figli e insegnanti attorno allo stesso "desco tecnologico"? In primo luogo sfatando, con una rigorosa analisi scientifica, pregiudizi e timori che non hanno ragione di essere. Questo libro, a cura della prestigiosa Académie des Sciences, è l'equivalente di un insieme coordinato di linee guida ai problemi che può comportare la progettazione e la gestione di servizi rivolti ai bambini e ai preadolescenti che utilizzino tecnologie digitali. Integrando i dati scientifici più recenti della neurobiologia, della psicologia, delle scienze cognitive, della psichiatria e della medicina, allo stesso tempo propone agli insegnanti, agli educatori - ma anche ad esempio al personale sanitario o a quello delle istituzioni museali - raccomandazioni semplici e operative che possano essere di aiuto nei differenti contesti.
Quali fattori condizionano la scelta della scuola superiore in Italia? Quale ruolo può svolgere l'orientamento scolastico per rendere il sistema di istruzione più equo? È possibile che le pratiche orientative rafforzino il peso delle origini sociali sui destini educativi degli studenti? Frutto di una ricerca etnografica, il libro si interroga sul rapporto tra scuola e disuguaglianze, tra scelte educative e condizionamenti sociali. Attraverso un'immersione nella quotidianità scolastica e un rapporto prolungato con docenti, studenti e genitori, analizza nel dettaglio i processi di orientamento al termine della scuola media: uno snodo cruciale nella differenziazione sociale della popolazione studentesca. Vengono così analizzate le ambivalenze e le contraddizioni attraverso cui la scuola prova a rispondere a una delle funzioni principali che le sono attribuite dalla Costituzione della Repubblica: garantire l'uguaglianza delle opportunità.
Da qualche anno ormai "Della certezza" (Über Gewißheit/On Certainty) di Ludwig Wittgenstein è al centro dell'interesse non solo degli interpreti wittgensteiniani, ma anche di epistemologi, filosofi del linguaggio, studiosi di pragmatica e filosofi in genere. Allo stesso modo è diventato cosa comune tra alcuni studiosi parlare, sulle orme di Avrum Stroll e Danièle Moyal-Sharrock, di "Della certezza" come del terzo capolavoro di Wittgenstein, da aggiungere al "Tractatus logico-philosophicus" e alle "Ricerche filosofiche". Il libro di Luigi Perissinotto, che qui viene ristampato con una nuova prefazione e che risale al 1991, è stato in Italia, ma non solo, uno dei primi studi complessivi su "Della certezza" e uno dei primissimi tentativi di studiarne il ruolo nel contesto dell'intera opera di Wittgenstein, anche al fine di stabilire il contributo che essa può dare ai grandi temi filosofici del dubbio e della certezza, della credenza e della conoscenza, dello scetticismo e del fondazionalismo. Nonostante gli anni trascorsi, il libro resta un utile commentario e un'importante introduzione, ancora in grado di dialogare con la più recente e aggiornata letteratura, a queste tarde e suggestive annotazioni dell'ultimo Wittgenstein.
Perché la pubblicità fa ricorso a contenuti di carattere religioso per promuovere prodotti che con la religione hanno poco o nulla a che fare? Da quando ciò accade? Affrontare questi interrogativi conduce a riflettere su un importante mutamento che riguarda beni simbolici, di tipo religioso ed economico, e discorsi pubblici che hanno acquistato una rilevanza in larghi strati della società. La ricerca condotta coglie fenomenologie in pieno sviluppo. L'analisi empirica riguarda un ampio campione di pubblicità che copre cinquant'anni di storia sociale italiana, individua i simboli religiosi più usati, gli scopi pubblicitari cui tali simboli rispondono, i cambiamenti registrati nel tempo. L'interpretazione mette in luce le convergenze e le tensioni tra senso e consenso, marcando lo spostamento dei simboli religiosi al di fuori dei confini del loro campo.
Quali origini ha avuto la media education? Che cos'era prima dell'avvento del digitale? Chi faceva educazione ai linguaggi audiovisivi, in che modo, e ispirandosi a quali orientamenti o teorie? Senza la pretesa di costruire una storia esaustiva dei rapporti tra educazione e il cinema, il volume cerca di rispondere a queste domande attraverso una serie di studi e testimonianze su come l'educazione al linguaggio filmico si sia sviluppata in diversi contesti e forme, dal cineforum ai giocattoli, dalle guide per gli insegnanti al film making scolastico. L' «educare al cinema» che dà titolo al libro, allora, non è da intendersi come l'espressione di un complemento di luogo, bensì di scopo, poiché si parla di educare alla lettura, scrittura e senso critico di testi e linguaggi audiovisivi, secondo pedagogie e didattiche progenitrici di quelle che riscontriamo tuttora per la digital & media literacy. L'ipotesi, infatti, è che sul cinema la pedagogia abbia messo a punto le categorie concettuali e i modelli d'azione che ancor oggi utilizziamo per tutti gli altri media.
In tempi recenti, i concetti di framing e di frame analysis sono diventati centrali negli studi sulle rappresentazioni mediali e giornalistiche, oltre che nell’analisi dei processi di costruzione delle news. Il riferimento al frame abbonda nelle indagini empiriche sui contenuti mediali, talvolta con non poche forzature teoriche e indeterminatezze concettuali; la stessa nozione di frame si presta a un utilizzo talora disinvolto, dovuto alla sua intrinseca interdisciplinarità e al sovrapporsi e stratificarsi di diverse accezioni.
Il volume esplora il dibattito intorno al frame come strumento teorico-empirico, analizzandone il ruolo nel definire le rappresentazioni del reale, in particolare per quel che riguarda il mondo dei media e del giornalismo.
“Incorniciare” i fatti e gli eventi, proporre una chiave di lettura e infine suggerirne un’interpretazione sono azioni che i media operano quotidianamente: compito dello studioso, dell’operatore dell’informazione come del pubblico è conoscere e decodificare queste dinamiche nonché le connessioni con le dimensioni politiche o culturali, particolarmente significative per l’analisi dei processi di costruzione sociale della realtà.
In occasione di terremoti, alluvioni e altri disastri ambientali, un numero crescente di cittadini si rivolge ai social media per ottenere e diffondere informazioni, oltre che per condividere emozioni, cercare supporto, offrire il proprio aiuto alle popolazioni colpite. Anche le istituzioni hanno iniziato a muoversi in tali ambiti, tra ritardi e casi d’eccellenza.
Che cosa fanno davvero i cittadini sui social media, durante le emergenze? Quali bisogni esprimono? Che contributo possono dare? Chi sono gli influencer, in questi contesti? Che ruolo giocano le istituzioni e i media tradizionali? È possibile costruire una grammatica per una più efficace comunicazione d’emergenza sui social media?
Il volume affronta simili questioni con un taglio multidisciplinare, offrendo una riflessione teorica attenta al dibattito internazionale – e fondata sulla letteratura dedicata alla comunicazione d’emergenza e agli internet studies – e una serie di casi di studio che si concentrano su terremoti e alluvioni che hanno di recente colpito il territorio italiano (dal terremoto in Emilia del maggio 2012 all’alluvione in Sardegna del novembre 2013).
Il libro racconta un percorso di riflessione nato dall'incontro con il pensiero di grandi pedagogisti, studiosi e architetti e dall'osservazione di alcune scuole di metodo che sono punti di riferimento e apripista per pensare agli edifici scolastici come un corpo da inventare. Una scuola da vedere, da sentire e da toccare, una scuola che ha un corpo che parla con la sua fisicità, sul quale iniziare a ragionare concretamente.
Le tecnologie digitali sono state, nel corso degli anni, accusate di danneggiare i rapporti sociali, fino a condurre gli individui all'isolamento, o entusiasticamente esaltate come infallibile strumento di democrazia e di coesione sociale. "Networked" propone una lettura finalmente libera da accentuazioni utopiche e distopiche, attenta solo a "ciò che le persone fanno con le tecnologie". Gli autori illustrano la tripla rivoluzione (la diffusione dei network sociali, di internet e del mobile) attraverso un solido apparato teorico e un'ampia evidenza empirica, in larga parte basata sulle ricerche del Pew Internet and American Life Project.
Perché un libro sul primo amore? In primo luogo perché appartiene all'esperienza individuale di tutti il vissuto di un "primo amore", sperimentato concretamente, oppure solo desiderato o anche immaginato, quale vero e proprio rito iniziatico che segna il passaggio dall'adolescenza all'età adulta. Si tratta di un evento che merita di essere approfondito: in esso l'individuo si misura con i modelli educativi interiorizzati, con il proprio immaginario amoroso e al contempo con il desiderio di una nuova progettazione esistenziale.