La conoscenza e la definizione dell'esperienza mistica ci pongono di fronte a un paradosso. Nella sua natura più profonda essa è sprofondamento nell'abisso dell'interiorità, incontro o unione con Dio fino al totale svuotamento di sé. Eppure non c'è per noi altra via d'accesso alla sua conoscenza che il linguaggio. Lo studio dei modi espressivi attraverso i quali essa si rende conoscibile è dunque obbligatorio. Non di rado, del resto, la scrittura mistica ha raggiunto i più alti risultati poetici: basti pensare a un san Giovanni della Croce, a un Angelus Silesius. Ma se si vuole attingere il nucleo più intimo di questa esperienza non ci si può arrestare alla pura dimensione letteraria: qual è dunque lo specifico del linguaggio mistico?
In questo piccolo libro, Étienne Gilson (1884-1978), filosofo cattolico neotomista si occupa di due autori apparentemente lontanissimi dal suo campo di indagine: François Villon, il poeta francese del Quattrocento autore della celeberrima Ballata degli impiccati, ladro, malfattore, bandito, per lo più ritenuto ateo; e François Rabelais, l'autore del Gargantua e Pantagruele, letto generalmente come pre-libertino, carnale, pagano e mondano, fastidito dalla teologia proprio a causa del suo passato di frate francescano. «Bisognerebbe mettersi nelle condizioni di comprendere i testi, prima di commentarli». Sulla base di questo principio, Gilson smonta queste immagini semplificate dimostrando la familiarità di Villon e Rabelais con la Bibbia, la patristica e il lessico filosofico medievale, il che dà ancora più forza alla posizione di eccentricità scelta dai due scrittori. Basta leggere il Gargantua, dice Gilson, grattare appena la superficie delle parole e delle locuzioni, per trovarvi la ripresa di luoghi biblici e teologici, così familiari all'orecchio dell'uomo medievale, da non poter sfuggire nemmeno al più distratto dei commentatori. È una lettura che fa giustizia di tanti facili alibi storiografici, come la "frammentazione postmoderna". Non ci sono frammenti se non dove non si ha voglia di raccoglierli: questa è la sostanza del monito di Gilson, a suo modo progressivo e, nel nostro tempo, anche costruttivamente eretico.
Il gesuita Walter Jackson Ong, allievo del sociologo canadese Marshall McLuhan, è noto al pubblico italiano per i suoi studi sulla storia della scrittura e dell'oralità. Ong incarna quel panorama multidisciplinare della letteratura intesa come meditazione, uno scenario, dunque, non afflitto da specialisti ma aperto alla poesia intesa come via d'accesso al bello e al bene, alla beatitudine. In questo volume, l'autore attraversa con densità e partecipazione i meandri e gli slanci dell'opera di Gerard Manley Hopkins, il grande poeta e mistico dell'Ottocento, autore del poema "Il naufragio del Deutschland, che venne riscoperto con ardore nel primo dopoguerra del Novecento e assunto tra i maestri di intere generazioni. Ma l'originalità delle letture di Ong consiste soprattutto nel porre in luce l'elemento fondativo dell'arte di Hopkins, il suo insistere sull'identità, il Self, come chiave per meditare la presenza reale, incarnata, di Dio nell'intimo di ciascuna persona. Hopkins non fu l'unico dei poeti dell'età vittoriana a indagare la questione del sé o del "paesaggio interiore"; ma l'intensità e l'acuto senso di pienezza esistenziale che emerge dai suoi versi lo rendono unico nel suo genere. Ong, in queste lezioni, chiarisce il senso di questa unicità e la pone in relazione con la tradizione ascetica che innerva il cristianesimo come un fiume carsico.