Non vogliamo guardare al microscopio la famiglia e le sue dinamiche, ma aprire uno squarcio nell’orizzonte grande che la fa respirare. La famiglia, fragile e insostituibile. Il tentativo che denunciò Hannah Arendt di «proteggere gli affari umani dalla loro fragilità» oggi non è pensabile, perché l’onda lunga della pandemia li ha travolti. In questi mesi, tra le mura di casa è successo tutto: il lavoro, lo studio, una convivenza a cui non si era abituati. Si è abbracciato il dolore e raccolto le gioie, si sono scoperchiati i legami, consumati nella pretesa reciproca o ridonati. Le immagini più lievi sono quelle di papà e mamme in call di lavoro, ai fornelli, con un figlio in braccio. Mentre le fatiche più buie non sempre si vedono o si raccontano. Ci si è trovati «messi a nudo», «ridotti all’osso», come raccontano le testimonianze in questo numero, dedicato a un luogo che, per sua natura, è straordinario nell’ordinario.
Oggi vedere una famiglia lieta è un evento. Perché, ora più che mai, risalta la cruda alternativa di sempre: «Dalla natura, il terrore della morte. Dalla grazia, l’audacia», secondo l’espressione di san Tommaso, a cui seicento anni dopo fece eco Charles Péguy: «Per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia».
Una grazia che non ha nulla di incantato. Quando si parla di famiglia o è una grazia concretissima, spudorata e paziente, oppure non è. Le storie che troverete non sono di famiglie eroiche, ma di famiglie che da sole non esisterebbero: sono generate da quell’orizzonte che è un amore più grande sperimentato nella comunità cristiana. Ne scorgiamo gli effetti: qualcuno che ha la quota di fiducia necessaria per decidere di “fare famiglia” – di sposarsi, mettere al mondo dei figli, addirittura accogliere quelli di altri –, che ha l’audacia non solo per cominciare, ma soprattutto per continuare, portare avanti, anche quando vengono meno i soldi, la salute o la routine diventa soffocante. Dal perdono quotidiano fino all’esperienza di una giovane coppia che non riesce ad avere bambini, eppure è aperta alla vita, e aiuta a cogliere il cuore anche della famiglia più numerosa: «L’incontro di un uomo e di una donna non può essere definito dallo scopo esclusivo di avere dei figli», dice Giussani: «Ma innanzitutto dall’essere compagnia al Destino».
È solo in questa prospettiva infuocata, della persona in cammino per il suo compimento, che si rigioca instancabilmente la partita anche per la famiglia: si cerca una compagnia oltre la propria casa per poter amare, le ferite non si chiudono ma aprono a un vivere più autentico, e tutto questo sfida i pensieri e le paure perché esiste, è possibile.
«È ragionevole rischiare? Dipende da quello che hai incontrato», diceva Julián Carrón agli Esercizi della Fraternità di CL che si sono appena svolti, trasmettendo una pienezza di vita che cresce se attraversa tutto: non ti nascondi e non censuri, perché affrontando quello che succede puoi verificare l’utilità della fede per vivere. Per il bisogno di andare oltre l’apparenza.
Di toccare con mano «se c’è il nulla o l’essere».
Il vaccino
«Io, come reagisco alle situazioni che non vanno?», ha chiesto, a un certo punto della sua visita in Iraq, papa Francesco: «Di fronte alle avversità ci sono sempre due tentazioni». La fuga o la rabbia, diceva. Che non cambiano nulla. «Gesù, invece, cambiò la storia. Come?
Con la forza umile dell’amore, con la sua testimonianza paziente. Così siamo chiamati a fare noi. Così Dio realizza le sue promesse». Di una promessa che non è mai delusa – che si avvera per strade sommesse, inimmaginabili, attraverso la nostra debolezza – ha parlato Francesco davanti a quei testimoni per cui ha compiuto il suo viaggio, «testimoni spesso trascurati dalle cronache, ma preziosi agli occhi di Dio». Lui li ha guardati, ammirati, rimessi di fronte al mondo.
Per questo abbiamo voluto dare spazio alla sua visita nella terra di Abramo, alle parole e ai gesti di quei pochi intensi giorni tra Baghdad, Erbil, Mosul, Qaraqosh. Dove la violenza ha travolto tutto, il Papa ha indicato una realtà presente: esistenze in cui il male e la morte non sono l’ultima parola, perché Cristo è risorto. La vittoria della familiarità con Dio fonda la vita di uomini e donne, si rende concreta nel perdono, in storie precise, volti: è il popolo cristiano, una presenza umana che sembra sconfitta dalla storia. Eppure loro, perseguitati, sono stati spogliati di tutto senza perdere niente, perché hanno il tesoro che vale più della vita: l’essere intessuti di un rapporto, dell’appartenenza a Cristo.
Fermarsi davanti a loro e guardare, come ha fatto Francesco, può essere un contributo alla situazione in cui ci troviamo tutti. «Ci sono momenti in cui la fede può vacillare, quando sembra che Dio non veda e non agisca», ha detto: «Questo per voi era vero nei giorni più bui della guerra. È vero anche in questi giorni di crisi sanitaria globale e di grande insicurezza». Ma non è un problema di resilienza. È che quando la vita urge si rende più chiaro che cosa è all’altezza: trovare «persone che, vivendo in mezzo a noi, riflettono la presenza di Dio». Chi al posto di fuggire, tocca la realtà, la vive, senza essere in balìa delle circostanze, della sofferenza, l’ingiustizia, il blackout a Macapá o l’uragano in Honduras, le restrizioni quotidiane a ogni latitudine. Lo vedrete nei racconti che arrivano da varie parti del mondo, da comunità del movimento, magari di una sola persona, ma in cui dall’incontro con Cristo rinasce l’io, nasce un sentimento nuovo della vita che rende protagonisti.
«Sappiamo quanto sia facile essere contagiati dal virus dello scoraggiamento che sembra diffondersi intorno a noi», si legge nel discorso a Baghdad: «Eppure il Signore ci ha dato un vaccino efficace. È la speranza». La certezza di non essere più soli. «Non dimentichiamo mai che Cristo è annunciato soprattutto dalla testimonianza di vite trasformate dalla gioia del Vangelo. Una fede viva in Gesù è “contagiosa”, può cambiare il mondo».
A un anno dall’inizio della pandemia, i dati che parlano della sofferenza dei bambini e dei ragazzi allarmano. Ma cosa accadrebbe se fossero pubblicati quelli sugli adulti? Il negazionismo oggi sarebbe ridurre il problema educativo alle aule e alle modalità didattiche, perché la grande prova che tocca i giovani riguarda tutti.
Generazione Covid. Dipende da ciascuno il significato di questa espressione diventata di moda: se è lo stagliarsi di una generazione traumatizzata dalle limitazioni, da un tempo “perduto”, o se è la grande occasione per verificare che cosa è in grado di generare il desiderio di vivere.
«Cosa possiamo fare?». Non c’è domanda più comprensibile oggi, soprattutto se fatta da un genitore. Ma la replica è netta: «Il senso della vita non si trasmette con il Dna» e il problema è innanzitutto nostro, ed è «la paura profonda che tutto finisca in nulla». È la risposta di Julián Carrón all’incontro del 30 gennaio, “Crescere e far crescere in tempo di pandemia”, nato dalla lettera di alcuni insegnanti di CL al Corriere della Sera e dal suo libro Educazione, comunicazione di sé, contributo al Patto globale voluto dal Papa per quella che definisce «una catastrofe educativa», davanti alla quale «non si può rimanere inerti».
Ma che cosa non ci lascia inerti? Quando ogni sforzo è sconfitto in partenza, solo fare una strada in prima persona. «In una società come questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita», diceva Giussani già nel 1978: «Non c’è struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto».
In questo numero trovate alcune storie di chi comunica ciò che lo sostiene, e risponde a quell’urgenza di significato, per sé e per l’altro, che sconfina dalle aule, dalle geografie, dal tipo di lavoro, da età e condizioni. Gli universitari portoghesi che nella pandemia scoprono se stessi al posto di vivere in trance; la presa che ha su adulti e ragazzi un’esperienza come il Donacibo; un sindaco che si chiede cosa ricostruisce il sentire comune. Perché si educa con tutto, nel modo di lavorare o di rientrare a casa, di vivere un dolore o di guardare un film.
L’educazione avviene sempre controvento, si è detto in questo tempo. Ma occorre che qualcosa si alzi più forte del vento: nell’apatia, ci muove solo qualcuno che dialoga con il nostro bisogno profondo di essere amati.
Come Antonio, che ha iniziato a insegnare a oltre cinquant’anni, esattamente un mese prima che il mondo fosse congelato dal Covid. Tante le difficoltà, eppure nel dialogo del 30 gennaio ha raccontato il rapporto sorprendente che è accaduto con i suoi studenti: loro sono stati investiti dallo sguardo che ha ricevuto lui nella vita, incontrando gente cristiana. «Se non siamo stati guardati in modo vero, non possiamo guardare l’altro in modo vero», concludeva Carrón quella sera: «Anzi, se non siamo guardati ora! Generati noi ora».
Fratelli perché figli
«Il miracolo che travolge il mondo è che della gente estranea si tratti come fratelli». La frase a cui si riferisce il titolo di copertina l’ha pronunciata, in un incontro nel 1983, don Luigi Giussani (di cui il 22 febbraio ricorrono sedici anni dalla morte). Diceva che non c’è nulla di più impossibile e desiderabile di questo rapporto nuovo con l’altro. È l’essenza della “rotta umana” che il Papa ci indica con la Fratelli tutti, la sua ultima enciclica.
Ma come è possibile, quando i problemi sono così complessi da soffocare la vita personale e collettiva? La pandemia ha svelato le inconsistenze che già c’erano. E, mentre la politica si frantuma, si allarga la geografia del dramma di milioni di uomini, così immenso da sembrarci irreale. Balcani, Tigray, Siria, Guatemala. L’elenco è lungo.
L’enciclica suscita un’inquietudine davanti ai contrasti, anche i più quotidiani, e pone molti interrogativi, uno di fondo: come “salvarsi insieme” possa non rimanere un’intenzione, uno scenario utopico o uno sforzo, che finirebbe solo in scetticismo.
In un mondo diviso, dove si è persa «l’attenzione penetrante al cuore della vita e non si riconosce ciò che è essenziale per dare un senso all’esistenza», scrive Francesco, non ci possono essere ragioni solide e stabili per richiamarsi alla fraternità «senza un’apertura al Padre di tutti. Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi. Perché la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità». L’enciclica è un testo ricchissimo come lo sguardo che offre sul mondo. Prima di ogni considerazione, chiede di partecipare della grande provocazione che la Chiesa rivolge a ciascuno.
Con il “Primo Piano” di questo numero vogliamo guardare come accade di ritrovarsi e riconoscersi fratelli. Lo facciamo innanzitutto attraverso la testimonianza della piccola comunità di Taiwan, dove ogni lontananza dall’altro è colmata per un tesoro che si riceve e trabocca: l’incontro vivo con il fatto cristiano. Sperimentare di essere «figli» di Dio, attraverso una compagnia concreta, spalanca a un atteggiamento nuovo: abbiamo colto, in situazioni e Paesi diversi, questa gratitudine che sfonda nel cuore dell’uomo fino a cambiarlo e cambiare i rapporti. Perché «la fratellanza è un fatto universale.
Ma non astratto», come leggerete nel dialogo con l’islamologo Adrien Candiard: «La migliore incarnazione dell’enciclica si farà attraverso piccoli fatti fra le persone». «Questo è il miracolo», ribadiva Giussani in quel raduno: «E questo è ciò per cui siamo stati chiamati».
«La speranza è una certezza nel futuro in forza di una realtà presente». Si può ripetere oggi una frase così solida, senza essere considerati ingenui o sfrontati? Lette una a una, queste parole di don Giussani sono una lama di luce nella nebbia fitta. Ci vengono incontro all’inizio di un anno che parte sfinito, carico di incertezze: ogni slancio naturale ha esaurito la sua spinta, schiantato dalla seconda ondata, minacciato dalla terza. C’è chi ha perso i propri cari, senza salutarli, chi il lavoro, e chi ha avvertito l’insufficienza delle cose anche quando vanno bene. In altri Paesi del mondo, poi, la pandemia non è nemmeno la prova più grande.
Dopo un 2020 definito dal Censis «l’anno della paura nera», ancora di più cerchiamo persone in cui la paura è vinta. Quando ogni cosa sembra interpretabile, questa è un’esperienza inconfondibile. L’accadere di fatti, magari piccoli, non eclatanti, ma che liberano dal cappio dell’insicurezza. E il fatto dei fatti è vedere gente per cui il desiderio si rianima, per cui “speranza” non è una parola piena di futuro, ma piena di presente.
In questo numero troverete i racconti di persone che guardano al domani con la certezza che niente finisce in niente, non per una propria forza ma per un incontro: da Erik Varden, neovescovo in Norvegia, a Mireille Yoga (nella foto in copertina) e i suoi ragazzi di strada del Camerun, dall’amica di Taipei per cui la vita è una chiamata, anche la malattia; fino a chi continua ad amare un figlio difficile o se stesso senza misurare. C’è chi è generato dalla compagnia cristiana nelle corsie di un ospedale o in università, per cui altri sono arricchiti e possono vivere l’attesa di cui siamo fatti. Infine, abbiamo voluto pubblicare come contributo il dialogo tra lo psicanalista Massimo Recalcati e Julián Carrón sui “luoghi” che risvegliano l’io, perché certe cose non si dicono, ma accadono.
L’inizio è possibile grazie all’impatto con uomini comuni fuori dal comune. Con quel «granello di frumento cristiano» che si tuffa nel mondo, come scrive il grande teologo Hans Urs von Balthasar, nello stesso brano da cui abbiamo tratto il titolo di copertina: «Perché per il mondo solo l’amore è credibile».
Niente sfida la libertà come una persona in cui si vede realizzato ciò a cui aneliamo.
Tracce n.11, Dicembre 2020
Il soffio di Dio
01.12.2020
C’è una frase di don Giussani che torna spesso, nelle conversazioni e nel lavoro comune delle ultime settimane. Segno di quanto abbia colpito chi l’ha sentita ripetere alla Giornata d’inizio anno di CL (vedi l’ultimo numero di Tracce), ma pure del fatto che la riconosciamo familiare, la vediamo accadere nelle nostre vite. «Il Signore opera anche a soffi». Non si impone con gesti clamorosi: suggerisce, invita, sollecita. Si propone alla nostra disponibilità ad assecondare i fatti che Lui opera. Alla nostra libertà.
Se ci pensiamo bene, pure il Natale è così. Un bimbo, inerme. Venuto al mondo in un angolo sperduto di quel mondo, una provincia marginale e sconosciuta dell’Impero. Meno di un soffio, nella storia. Eppure, è ciò che l’ha cambiata per sempre. Perché rende possibile viverla.
Senza l’Incarnazione, se Dio non fosse presente nella realtà, la vita sarebbe semplicemente impossibile. Si potrebbero, forse, reggerne certi urti – per qualche tempo, e solo per i temperamenti più forti –; ma il respiro della nostra libertà non potrebbe mai allargarsi sotto quegli urti, la pienezza della nostra umanità non potrebbe mai fiorire fino in fondo. Perché sarebbe impossibile vivere fino in fondo ciò di cui siamo fatti: il rapporto con il Mistero, con il Padre. Senza il Figlio – che vive di quello, che è venuto per incarnare, e quindi mostrare a tutti, quel legame decisivo con il Padre – non potremmo mai, a nostra volta, concepirci come figli. O meglio, magari potremmo riconoscerlo teoricamente, in qualche raro soprassalto di una ragione che sembra farsi sempre più fiacca – è un’evidenza che non mi faccio da me, che in questo istante sono generato da qualcun altro che mi vuole –; ma non basterebbe per viverlo, per affrontare la realtà partendo da quella evidenza, mantenendola nella coda dell’occhio e dello sguardo.
«Caro cardo salutis», la salvezza della nostra stessa carne è nell’Incarnazione, dice un’altra espressione, più antica, sentita spesso negli ultimi tempi. Ma serve un’Incarnazione presente, che ci raggiunge ora. Fatti e testimoni che ci sollecitano oggi alla stessa disponibilità, docile e stupita, dei primi, di quei pastori che hanno dato credito a quel misteriosissimo «soffio di Dio».
La vita è piena di testimoni così. Qualche piccolo esempio lo trovate anche nelle prossime pagine. Sono la Sua carne, Dio con noi. Buon Natale!
Tracce n.10, Novembre 2020
La crepa e la diga
02.11.2020
In sei parole, aveva descritto l’oggi. E lo aveva fatto centocinquant’anni fa, quando pure certe evidenze reggevano ancora e l’incertezza non arrivava alla radice di tutto. Eppure, in quella frase di Friedrich Nietzsche c’è il dramma di ora: «Non esistono fatti, ma solo interpretazioni». Profezia perfetta di un’epoca in cui ci ritroviamo «sballottati» tra mille posizioni, come sottolineava Julián Carrón nella Giornata d’inizio (il “momento di avvio” del lavoro proposto al movimento di CL per il nuovo anno sociale), «senza saper distinguere quale di esse accoglie lealmente i fatti». Non c’è nulla che abbia la forza di sottrarci a una nebbia in cui diventa tutto confuso e incerto: «Nessun fatto ci “prende” al punto tale da farci uscire dalla equivalenza delle interpretazioni. Sembra tutto uguale», diceva Carrón. Aggiungendo una domanda decisiva, perché non è retorica: «C’è qualcosa in grado di sfidare questo assioma?».
La partita, in fondo, è tutta qui. Sui fatti, e su come li guardiamo. Meglio: su cosa ci permette di vederli, di accorgerci della loro portata. Perché di fatti che scuotono e aprono varchi nella nebbia, ne accadono. Tanti. Ne trovate anche in queste pagine. Non sempre eclatanti o clamorosi: il più delle volte sono piccoli («il Signore opera anche a soffi», ricordava don Giussani). Ma significativi – cioè capaci, letteralmente, di indicare un senso, di spalancare prospettive. Basta guardarli. Ed è in quel «basta» che ci giochiamo tutto. Perché dice della nostra disponibilità a lasciarci conquistare.
Nella Giornata d’inizio anno siamo stati rimessi di fronte a un percorso potentissimo, di cui avevamo già parlato nel numero scorso: quello di Mikel Azurmendi, l’intellettuale basco che, colpito dall’incontro con alcune persone di CL, si è incollato a quella “strana tribù” per studiarla a fondo, capirne la natura. Ammirato da quel modo di vivere, per usare la sua espressione, ha iniziato a vedere. Fino a scoprire l’origine di quella diversità che lo affascinava: Cristo. Carrón ha voluto «indicarlo a tutti» perché è una «documentazione di come, in questi tempi in cui il nichilismo dilaga, una persona possa accorgersi – quando accade – di una diversità di esperienza, di ciò che nichilismo non è, e possa stupirsi di sconfiggerlo semplicemente assecondando la prima evidenza, per quanto esile, di quella diversità. È bastata questa crepa per far crollare la diga».
Ecco, in questo numero abbiamo ripreso lo stesso filo, cercandone tracce anche nelle vite di ognuno di noi. Fatti, imprevisti. Un cuore disponibile ad accoglierli. E un cammino di conoscenza che si apre e «allarga lo sguardo», proprio come chiede il Papa nell’ultima enciclica, Fratelli tutti (su cui trovate un percorso di lettura). È questo che tira fuori dalla nebbia, quando accade. E il bello è che accade.
Dici “scuola”, e vengono subito in mente altre parole. “Futuro”, per esempio: qualsiasi società, in qualsiasi momento della storia, il domani se lo gioca lì, in quelle aule. Oppure, “speranza”, parente stretta dell’attesa di felicità che abita il cuore dei ragazzi e di chi vuole loro bene: i genitori, gli insegnanti... La scuola, in fondo, esiste per questo: custodire quella speranza, coltivare quell’attesa, è la sua stessa natura. Bene: se c’è un ambito che la pandemia ha messo in crisi più di altri è proprio quello scolastico. È stato scosso, spiazzato, diviso tra l’esigenza di proteggere i ragazzi (e le famiglie) dal virus e la necessità di non strapparli dal loro mondo, dai legami – fondamentali – con compagni e professori. Da ciò che esiste proprio per farli diventare uomini, cioè in grado di affrontare la realtà anche quando si presenta con il volto imprevedibile di un dramma globale.
Ecco perché la sfida di questi giorni è decisiva. Mentre scriviamo, la riapertura della scuola è ancora in bilico, e non solo in Italia. Si ricomincia, ma la pandemia mette a rischio in qualsiasi momento il ritorno tra i banchi. Orari e spazi, cattedre e classi restano per molti un’incognita. Ma abbiamo deciso lo stesso di parlare della scuola che verrà, per un motivo semplice: qualsiasi volto abbia – in presenza, a distanza o blended, come si usa dire oggi –, il nuovo anno scolastico si porta dietro un bagaglio ricchissimo: l’esperienza degli ultimi mesi. Guardare dentro quel bagaglio, capire cosa stiamo imparando oggi, è decisivo per non perdere l’occasione, per affrontare con più consapevolezza il domani, il futuro. E per accendere, appunto, la speranza.
Che, non a caso, è stata tra le parole chiave di un momento di svolta, in questa strana estate segnata dal Covid: il Meeting di Rimini. Non era affatto scontato che ci fosse, quest’anno. Ma è stata una grazia sovrabbondante vedere che ricchezza di contenuti, incontri, giudizi è seguita alla decisione di rischiare, di provare ugualmente a realizzarlo, in modo nuovo, per offrire un contributo arrivato davvero al mondo intero, anche grazie al digitale. Lo abbiamo raccontato online sul sito, clonline.org (i tempi di chiusura del giornale non ci permettevano altro), e lo riprenderemo di sicuro più avanti. Qui, però, ne offriamo il cuore: l’intervento di Julián Carrón su «dove nasce la speranza». Un dialogo in cui, a un certo punto, è emersa un’espressione di don Giussani che sintetizza bene la partita in corso: «La speranza è una certezza nel futuro in forza di una realtà presente». Quello che serve per crescere. E per vivere.
Editoriale - Cammino e ripartenza
Ormai il nome è quello, «fase due». E va bene così, anche se i confini tra «prima» e «dopo» sono molto più vaghi di una data sul calendario e tengono con il fiato sospeso. L’inizio della svolta che segue il momento più acuto della pandemia non è uguale per tutti: arriva soltanto per alcuni, mentre altri sono ancora nel pieno del dramma o addirittura rischiano di entrarci veramente adesso (si pensi all’America Latina e all’Africa, a cui molti guardano con apprensione più che comprensibile). Eppure, è chiaro che l’attesa è grande, ed è tanta la speranza che si riversa in una parola come «ripartenza». Ma cosa serve per ripartire davvero?
Regole e provvedimenti, certo. Comportamenti responsabili che aiutino a spegnere i fuochi del virus e a evitare che si riaccendano. Il darsi da fare di tutti, perché mentre la curva dei contagi declina, quella della crisi economica rischia di impennarsi. E l’elenco delle cose utili e indispensabili potrebbe continuare. Ma prima di tutto questo, c’è una condizione. Quella che Julián Carrón, la guida di CL, ha sintetizzato nel titolo dell’ebook uscito nelle scorse settimane: Il risveglio dell’umano. Dalla pandemia «usciremo cambiati, ma solo se cominciamo a cambiare adesso», si dice in quel testo. Ovvero, «se siamo presenti al presente e impariamo adesso a giudicare ciò che stiamo vivendo». Se la nostra umanità, appunto, si sarà ridestata.
Noi abbiamo voluto approfondire questo punto. Capire che cosa sia questo risveglio, che tratti abbia. Nelle parole di una serie di personaggi che hanno voluto confrontarsi con gli spunti contenuti in quel libro (abbiamo ben sei interviste nel “Primo Piano”, ed è un fatto insolito: ma mai come in questo momento è un regalo trovare compagni di cammino che aiutino ad approfondire ciò che sta succedendo). E nelle testimonianze di uomini che mostrano come l’impatto con una realtà anche dura, imprevedibile nella sua crudezza, anziché mortificare la nostra libertà può aiutarla, muoverla, destarla. Può far nascere domande acute e una tensione serrata alle risposte. Può farci arrivare a una consapevolezza di noi e dell’altro – del valore del nostro io e della realtà – che non avevamo guadagnato prima.
Perché il vero test di questi giorni, più ancora che i tamponi o lo screening sierologico (importantissimi, sia chiaro), sarà vederci all’opera. Scorgere i segni di questa umanità ridestata, in noi e negli altri. E dar loro spazio, seguirli. Per non interrompere il cammino.