"Una minima infelicità" è un romanzo vertiginoso. Una nave in bottiglia che non si può smettere di ammirare. Annetta racconta la sua vita vissuta all'ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, Sofia si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto. Una petite che non cresce, che resta alta come una bambina. Chiusa nel sacrario della sua casa, Annetta fugge la rozzezza del mondo di fuori, rispetto al quale si sente inadeguata. A sua insaputa, però, il declino lavora in segreto. È l'arrivo di Clara Bigi, una domestica crudele, capace di imporle regole rigide e insensate, a introdurre il primo elemento di discontinuità nella vita familiare. Il padre, Antonio Baldini, ricco commerciante di tessuti, cede a quella donna il controllo della sua vita domestica. Clara Bigi diventa cosí il guardiano di Annetta, arrivando a sorvegliarne anche le letture. La morte improvvisa del padre è per Annetta l'approdo brusco all'età adulta. Dimentica di sé, decide di rivolgere le sue cure soltanto alla madre, fino ad accudirne la bellezza sfiorita. Allenata dal suo stesso corpo alla rinuncia, coltiva con ostinazione il suo istinto alla diminuzione.
Nell'aprile del 1621 a Selamon, un villaggio nell'arcipelago delle Banda, una spruzzata di minuscole isole perse tra l'Oceano Indiano e il Pacifico, un banale incidente - una lampada schiantatasi al suolo nella bale-bale, la sala riunioni requisita per sé e per i suoi da Martijn Sonck, funzionario olandese della Compagnia delle Indie orientali - innescò uno dei crimini piú efferati che la storia del colonialismo ricordi. Sonck aveva ricevuto l'ordine di distruggere il villaggio ed eliminare i suoi abitanti. Aveva, però, i nervi a fior di pelle poiché aveva percepito nell'apparente acquiescenza dei nativi un rabbioso fermento. Quando la lampada cadde, il suo nervosismo si mutò in panico. Lui e i suoi consiglieri afferrarono le armi e cominciarono a sparare a casaccio. I bandanesi, abitanti dell'unico luogo del pianeta dove cresce l'albero della noce moscata, una delle spezie di cui le grandi potenze coloniali si contendevano il mono - polio commerciale, furono massacrati, annientati senza pietà. Nelle pagine di Amitav Ghosh, questa feroce storia di conquista e sfruttamento - dell'uomo sull'uomo e dell'uomo sulla natura - assurge a parabola della furia devastatrice del colonialismo occidentale e delle sue irreversibili conseguenze fino ai giorni nostri. Come in tante situazioni analoghe, il genocidio dei bandanesi cancellò dalla faccia della terra anche la loro tradizione di armonioso connubio con la natura. Se oggi il nostro futuro come specie è in pericolo, avverte Ghosh, le cause vanno ricercate a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo e dall'apertura delle rotte attraverso l'Oceano Indiano. L'odierna crisi climatica, demografica e sociale non è, infatti, estranea all'ordine geopolitico inaugurato dai colonizzatori del Primo mondo, alla visione meccanicistica delle terre di conquista in cui la natura esiste solo in quanto risorsa da sfruttare e non come entità viva, autonoma e densa di significato; all'assoggettamento indiscriminato di «umani selvaggi» e di «non umani» come alberi, animali, paesaggi. Nella narrazione di Ghosh, i drammi del nostro presente globalizzato - migrazioni, siccità, pandemia, guerre, emergenza energetica - si ricongiungono così a episodi soltanto temporalmente remoti, in realtà così affini nella loro furia devastatrice che la maledizione della noce moscata non è affatto lontana da noi.
«Vedo ancora quelle minuscole dita di neonato e cerco di capire se siano diventate le dita di un assassino». Il mondo di Lilach Shuster sta crollando. Tutto è cominciato il giorno in cui un uomo afroamericano armato di machete è entrato nella sinagoga riformata di Palo Alto e ha versato il sangue di innocenti. Lilach pensava di avere tutto: una casa con piscina nel cuore della Silicon Valley, un marito di successo, un impegno nel volontariato e la sensazione di vivere in un luogo dove non è necessario difendersi sempre, come nel loro paese d'origine, Israele. La vita sotto il sole carezzevole della California non aveva nulla a che vedere con quella condizione di allarme permanente in cui sono nati Lilach e suo marito Michael, ma in cui non volevano crescere il loro figlio Adam. Dopo i fatti di Palo Alto, quella sensazione di pericolo è tornata, come se fosse sempre stata lì. La preoccupazione per Adam, quell'adolescente introverso e gracile come un uccellino, è diventata ansia protettiva, terrore per la sua incolumità. Ogni sera Lilach scruta il volto del figlio in cerca di uno spiraglio in quel guscio che lo racchiude, con la domanda inespressa tra le labbra: cosa hai fatto, figlio mio, nelle lunghe ore in cui siamo stati separati? Poi una sera, a una festa, un compagno di scuola di Adam, Jamal Jones, muore e c'è chi pensa che sia stato lui a ucciderlo. Sui muri della scuola compaiono scritte antisemite che lo accusano. Lilach non sa più chi è suo figlio, ma teme di conoscere più di un motivo per cui Adam avrebbe voluto uccidere Jamal. Ayelet Gundar-Goshen costruisce il suo nuovo romanzo intorno alla paura, la paura del futuro, la paura dell'altro, ma anche la paura di chi ti sta più vicino e può rivelarsi estraneo, il lupo nella tua casa. Un romanzo in cui non ci sono confini netti tra innocenza e colpa, sopruso e giustizia, e la verità appare complessa e inafferrabile come nella vita vera.
La porta grigia, i mattoni del colore delle nocciole tostate, la strada alberata e silenziosa per Londra, il quartiere ben frequentato: una casa perfetta per Marisa, illustratrice di libri per ragazzi, il rimedio a tutto ciò che nella sua vita chiede di essere riparato. Come lo è Jake, naturalmente, confortante come una pietra calda sul palmo della mano. Certo, quando la signora dell'agenzia immobiliare ha aperto la vetrata sul giardino, un uccello è volato dentro. Una gazza bianca e nera, che ha sbattuto contro le pareti prima di sfrecciare fuori, mandando in frantumi un vaso. Per Marisa, però, quell'apparizione improvvisa ha prodotto soltanto una lieve punta di disagio. Nessun segno infausto può offuscare il suo sogno di vivere con Jake e formare con lui una famiglia. Nei mesi successivi trascorsi in quella casa, la vita si svolge perciò, per la giovane illustratrice, come una vera e propria commedia romantica in cui le basta un semplice sguardo di Jake per capire che quell'uomo, così poco espansivo nei gesti e nelle parole, è la persona con cui condividere il resto dei suoi giorni. Finché un mattino arriva Kate, l'inquilina destinata a occupare la stanza di sopra, dato che i soldi non bastano mai. Bruna e disinvolta - l'esatto opposto di Marisa nell'aspetto -, trentaseienne critica cinematografica, Kate fa subito suo lo spazio comune della casa, abbandona le scarpe all'ingresso, si intrufola in ogni angolo, lascia lo spazzolino da denti accanto al loro anziché nel bagno di sopra, rivolge indelicate domande sul loro desiderio di avere un figlio, lancia sguardi insistiti a Jake. La sua invadenza si fa via via insopportabile per Marisa. Jake tenta di rassicurarla, ma nemmeno la notizia della sospirata gravidanza riesce a distogliere Marisa dalla sensazione sgradevole di avere un ospite ingrato in casa. Qualcosa non va in Kate: quella donna coltiva qualche oscuro disegno e non si fermerà finché non l'avrà realizzato. Dopo "Il party", Elizabeth Day ritorna con un romanzo psicologico che ha ottenuto grande consenso di critica e di pubblico in Inghilterra. Un'opera che parla di maternità desiderata, di relazioni disfunzionali, dell'irreparabile danno del dolore, della realtà che prende la forma dell'ossessione. Con due voci narranti che si contendono la scena in un gioco di prospettive dal finale sorprendente.
Occhi d'acciaio, di un azzurro terreo, bocca stretta che ne tradiva il carattere marziale e gesti affettati da moscovita di nobili origini, Aleksandr Alechin fece il suo definitivo ingresso nell'aristocrazia scacchistica nel 1927, quando a Buenos Aires si aggiudicò il titolo di campione del mondo sconfiggendo José Raúl Capablanca, elegantissimo cubano che dominava la scena da quasi un decennio. Sadico degli scacchi che, con il suo attacco a sorpresa, mirava ad atterrare e distruggere l'avversario, Alechin si era preparato con cura all'incontro. Aveva studiato il limitato repertorio di aperture di Capablanca, il suo «istinto di conservazione», e aveva deciso di affrontarlo con il suo imprevedibile gioco di attacco. Chi era, tuttavia, davvero questo genio che padroneggiava mirabilmente le mosse sulla scacchiera, ma non altrettanto quelle sul palcoscenico della sua vita e della sua epoca? In Russia era stato campione nazionale di scacchi e, insieme, giudice istruttore della polizia criminale di Mosca, interprete presso il Comintern e, stando a quanto alcuni affermano, spia scampata a una condanna a morte grazie all'intervento di Trockij. In Francia, dove ripara nel 1921, diventa Alexandre Alekhine, capitano della nazionale francese di scacchi nelle cui file gioca, per qualche anno, Marcel Duchamp. Accanito bevitore, tratta spesso le persone come fossero semplici pedoni sulla scacchiera. Inquieto seduttore, si sposa cinque volte con donne molto più anziane di lui. Durante il governo di Vichy, scrive sulla Pariser Zeitung, la rivista tedesca della Parigi occupata, una serie di articoli in cui tratteggia le differenze tra lo scacchista ebreo e quello ariano. Collabora con Hans Frank e Joseph Goebbels, partecipa a tornei nei territori del Reich. Dopo la guerra, accusato di collaborazionismo, si rifugia nel Portogallo di Salazar, dove muore in circostanze oscure nel 1946, a 53 anni e ancora campione del mondo di scacchi. Se è vero che la letteratura è la sola arte capace di restituirci «il mistero dell'individuo» (Emanuele Trevi), non c'è modo migliore delle pagine che seguono per accostarsi all'opera e alla figura di questo genio degli scacchi. Con la sua impeccabile scrittura, Arthur Larrue ritrae mirabilmente colui che Harold C. Schonberg definì «lo scacchista più immorale di Richard Wagner e di Jack lo Squartatore» e ne svela, a un tempo, il «doppio invisibile».
È il 31 dicembre e il regista Stanley Forbes ha appena deciso che declinerà qualsiasi invito in arrivo per la festa di Capodanno. La vuota mondanità del suo ambiente lo ha irrimediabilmente annoiato, e le sue uscite al vetriolo, con cui è solito scandalizzare l'uditorio e ravvivare un po' l'atmosfera, lo hanno ormai stancato. Anziché un invito, però, sul suo cellulare compare un messaggio: «Sto cercando Sophia, sai dov'è? Stanotte non è rientrata». È Karl Hermans a inviarglielo, uno scrittore «che pensa ancora di essere famoso» e che, soprattutto, si crede suo amico dopo che lui gli ha dedicato un documentario. Passata qualche ruggine, hanno ripreso i rapporti da un anno, precisamente da quando Stanley si è ritrovato davanti la figlia di Karl, decidendo all'istante che avrebbe fatto un film con quella splendida ragazza appena sbocciata, il film del rientro in patria dopo l'avventura hollywoodiana. Lui è sulla settantina, a fine carriera, Sophia di anni ne ha diciassette, il liceo ancora da finire. Stanley potrebbe essere suo padre, se non addirittura suo nonno; se richiesto, potrebbe elargire consigli affettuosi, estremamente indulgenti. Tutto questo se... se lei non fosse così maledettamente incantevole! Del resto, sul set, nessuno è parso immune al fascino della ragazza, alla sua spontaneità che non conosce malizia: Sophia ha stregato tutti, anche Michael Bender, l'ex bellissimo primattore che non si capisce bene cosa si sia messo in testa con quelle smancerie da vecchio seduttore seriale. Certo, mentre il nuovo film prendeva forma, ripresa dopo ripresa le motivazioni di Stanley si sono fatte via via più oscure: che cosa voleva da quel film e, soprattutto, che cosa vuole ora da quella ragazza e da sé stesso? In quest'ultima sera dell'anno, Stanley sa esattamente dove si trova Sophia, ma decide che la risposta a Karl può pure aspettare... In un continuo rovesciamento di prospettive in cui nulla è mai come appare, "Diva Sophia" segna il ritorno di Herman Koch all'affilata ironia e allo sguardo spavaldo sui guasti della contemporaneità che da sempre caratterizzano i suoi romanzi.
«Caro Pier Paolo, ho in mente una bellissima fotografia di te, solitario come al solito, che cammini, no forse corri, sui dossi di Sabaudia, con il vento che ti fa svolazzare un cappotto leggero sulle gambe. Il volto serio, pensoso, gli occhi accesi. Il tuo corpo esprimeva qualcosa di risoluto e di doloroso. Eri tu, in tutta la tua terribile solitudine e profondità di pensiero. Ecco io ti immagino ora così, in corsa sulle dune di un cielo che non ti è più ostile». (Dacia Maraini). Pier Paolo Pasolini è un autore di culto anche per i più giovani. La sua è stata una vita fuori dagli schemi: per la forza delle sue argomentazioni, l'anticonformismo, l'omosessualità, la passione per il cinema, la sua militanza e quella morte violenta e oscura. Sono passati cento anni dalla sua nascita, e quasi cinquanta dalla sua scomparsa. Eppure è ancora vivo, nitido, tra noi, ancora capace di dividere e di appassionare. Di quel mondo perduto, degli amici che lo hanno frequentato, della società letteraria di cui ha fatto parte, c'è un'unica protagonista, che oggi ha deciso di ricordare e raccontare: Dacia Maraini. Dacia Maraini è stata una delle amiche più vicine a Pier Paolo. E in queste pagine la scrittrice intesse un dialogo intimo e sincero capace di prolungare e ravvivare un affetto profondo, nutrito di stima, esperienze artistiche e cinematografiche, idee e viaggi condivisi con Alberto Moravia e Maria Callas alla scoperta del mondo e in particolare dell'Africa. Maraini costruisce questa confessione delicata come una corrispondenza senza tempo, in cui tutto è presente e vivo. Nelle lettere a Pier Paolo che definiscono l'architettura narrativa del libro hanno un ruolo centrale i sogni che si manifestano come uno spazio di confronto, dove affiorano con energia i ricordi e si uniscono alle riflessioni che la vita, il pensiero e il mistero sospeso della morte di Pasolini ispirano ancora oggi all'autrice. Lo stile intessuto di grazia e dolcezza, ma anche di quella componente razionale e ferma, caratteristica della scrittura di Dacia, fanno di questo disegno della memoria che unisce passato, presente e futuro non solo l'opera piú significativa, ma l'unica voce possibile per capire oggi chi è stato davvero un uomo che ha fatto la storia della cultura del Novecento.
È l'artista che per primo ha dato un'anima alle sue opere. Dei suoi quadri e dei suoi affreschi sappiamo perciò molto, ma della sua vita di uomo ben poco, avvolta com'è nella leggenda. Ora da un accurato lavoro di scavo negli archivi e dalle cronache dell'epoca, Alessandro Masi fa nascere una rigorosa e documentatissima biografia di Giotto, del «ragazzo» che rivoluzionò la pittura tra il Duecento e il Trecento, quando si preparava la Rinascenza. E lo fa narrando quella vita come fosse un romanzo. Così entriamo con Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, nella cappella degli Scrovegni a Padova, nelle basiliche di Roma, Napoli, Firenze... Un racconto tanto vivido che sembra di sentire l'odore dei colori, di stare sulle impalcature a osservarlo dipingere, di percepire lo stupore dei committenti di fronte a opere che non avevano alcun paragone con quanto realizzato prima. Emergono con forza i suoi rapporti con il maestro Cimabue, con gli intellettuali della sua epoca e in particolare con Dante, di cui fece un ritratto giovanile nel 1302, prima dell'esilio del poeta, e che incontrò nuovamente a Padova mentre creava un capo - lavoro per una famiglia tanto ricca quanto chiacchierata, gli Scrovegni appunto. Boccaccio fece di Giotto un personaggio del suo Decamerone. E dietro di lui si stagliavano Petrarca e i papi del travagliatissimo periodo della sua esistenza. Ne esce lo spaccato di un'epoca, di un grande artista e di un uomo non privo di ombre e contraddizioni. Migliore interprete di sempre del poverello di Assisi, viveva nell'angoscia di diventare povero e di non poter sistemare la sua numerosa prole. Probabilmente una volta arricchito divenne anche usuraio e, invitato dagli intellettuali a schierarsi nell'agone politico dell'epoca, si dimostrò tutt'altro che incline alle azioni coraggiose.
Vi sono giorni in cui è dato diventare dei sopravvissuti, e portare sulla schiena l'enigma e il peso della morte. Il primo marzo duemilacinque è uno di questi giorni per Thésée. Al secondo piano di un appartamento parigino, in cui accorre chiamato dal padre, l'irreparabile si schiude davanti ai suoi occhi: suo padre seduto e, disteso sulle mattonelle rosse, suo fratello Jérôme, morto suicida. Che quella scena ubbidisca a una legge crudele destinata a infrangere ogni legame, Thésée lo apprende negli anni immediatamente successivi. La madre e il padre muoiono e tutto il mondo in cui lui ha imparato ad amare sprofonda nel nulla. Che cosa fare quando tutto cade e la vita è maledetta? Quando, nel luogo in cui si è vissuto, non vi sono piú giorni e luce? Che cosa fare se non cercare giorni e luce altrove e lasciarsi alle spalle le tragedie, i lutti, il labirinto del passato? Thésée giura a sé stesso di non lasciare che il passato infesti l'avvenire. Abbandona la città dell'Ovest e parte con l'ultimo treno verso l'Est, alla volta di un paese in cui respirare aria nuova, in cui nessuno conosce il suo nome. La ferita del passato, però, non scompare affatto quando luoghi e nomi cambiano. La ferita è incisa nel corpo, in quell'involucro in cui le immagini, il verbo e la materia si confondono. Il corpo di Thésée collassa, percosso dalle forze del suo recente passato, e da altre più antiche che gli rivelano una verità inaspettata: che ognuno di noi non è altro che un continuum di disastri e di crolli racchiuso in quella cristallizzazione di legami che chiamiamo Corpo. A nulla vale perciò cercare una vita nuova che volti le spalle al passato. Thésée è costretto a rituffarsi nelle acque del tempo, a intraprendere un viaggio al cuore della notte, nelle pieghe del corpo, nel labirinto del passato, per ritrovare il filo della sua vita e non soccombere.
«Bisogna essere stati soli e randagi per sapere il valore dell'ospitalità». Nelle primavera del 1941, prostrato dalla perdita di Annie Pohl, la sua prima moglie, e dalla sensazione di non avere più speranze, Nicola Chiaromonte decide di partire per Marsiglia, facendo poi rotta per l'Africa. Fugge da un'Europa devastata dalla guerra, fugge soprattutto dalla Francia, da «tutto ciò che poteva essere dolcezza, compagnia, consolazione»: la cerchia degli amici, innanzi tutto, e poi Parigi, la città raggiunta nel 1934 da esule antifascista, dove ha conosciuto Annie e stabilito un intenso sodalizio spirituale con l'intellettuale libertario italo-russo Andrea Caffi. Giunto ad Algeri, viene introdotto nel gruppo dei giovani artisti, scrittori e giornalisti che, riuniti attorno ad Albert Camus e alla Maison Fichu, cercano di ricreare, grazie all'attività teatrale, un'esperienza fraterna ed egualitaria, ispirata alla bellezza e alla libertà. All'epoca del loro primo incontro, Albert Camus ha appena terminato i suoi tre «Assurdi» - un romanzo, Lo Straniero, un saggio, Il mito di Sisifo, e una tragedia, Caligola - che esaminano il problema della società e del nichilismo contemporanei. Per Chiaromonte, tuttavia, la frequentazione di Camus e della sua cerchia, non è che l'occasione per ritrovare, in terra africana, «la Francia amata, il calore puro e netto dell'amicizia francese». Soltanto qualche anno dopo, leggendo le opere dello scrittore francese a New York, Chiaromonte comprende che una profonda affinità spirituale lo unisce all'autore dello Straniero. Dall'esilio americano, durante i drammatici anni di guerra che condussero alla disfatta di Hitler e alla bomba atomica, dà allora avvio a un intenso scambio epistolare con Camus che dura fino alla morte di quest'ultimo avvenuta nel 1960. Testimonianza, talvolta commossa e commovente, dell'«amicizia tanto intensa e pudica» che unì per due decenni due giganti del secolo scorso, la corrispondenza tra Albert Camus e Nicola Chiaromonte svela, attraverso la «dura fraternità degli uomini in lotta contro il destino», i segni di una stessa condizione umana e di un comune atteggiamento dello spirito nei confronti della barbarie e della violenza, che farà dire a Camus nel 1954: «Io l'avevo riconosciuta e lei era tra le decine di esseri con i quali avevo sempre vissuto, anche in loro assenza».
«L'unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti e cercare la distanza giusta, che è lo stile dell'unicità». Così scrive Emanuele Trevi in un brano di questo libro che, all'apparenza, si presenta come il racconto di due vite, quella di Rocco Carbone e Pia Pera, scrittori prematuramente scomparsi qualche tempo fa e legati, durante la loro breve esistenza, da profonda amicizia. Trevi ne delinea le differenti nature: incline a infliggere colpi quella di Rocco Carbone per le Furie che lo braccavano senza tregua; incline a riceverli quella di Pia Pera, per la sua anima prensile e sensibile, cosi propensa alle illusioni. Ne ridisegna i tratti: la fisionomia spigolosa, i lineamenti marcati del primo; l'aspetto da incantevole signorina inglese della seconda, così seducente da non suggerire alcun rimpianto per la bellezza che le mancava. Ne mostra anche le differenti condotte: l'ossessione della semplificazione di Rocco Carbone, impigliato nel groviglio di segni generato dalle sue Furie; la timida sfrontatezza di Pia Pera che, negli anni della malattia, si muta in coraggio e pulizia interiore. Tuttavia, la distanza giusta, lo stile dell'unicità di questo libro non stanno nell'impossibile tentativo di restituire esistenze che gli anni trasformano in muri scrostati dal tempo e dalle intemperie. Stanno attorno a uno di quegli eventi ineffabili attorno a cui ruota la letteratura: l'amicizia. Nutrendo ossessioni diverse e inconciliabili, Rocco Carbone e Pia Pera appaiono, in queste pagine, come uniti da un legame fino all'ultimo trasparente e felice, quel legame che accade quando «Eros, quell'ozioso infame, non ci mette lo zampino».
«Eravamo gli sgraditi, gli indesiderati, gli ignorati, invisibili a chiunque fuorché a noi stessi»: così comincia quest'opera. Protagonista del nuovo romanzo è ancora il giovane Capitano dell'esercito sudvietnamita che, nel "Simpatizzante", dopo la caduta di Saigon nel 1975, ripara negli Stati Uniti e, all'insaputa dell'amico e fratello di sangue Bon e del generale capo della Polizia Nazionale sudvietnamita, invia i suoi rapporti a Man, suo addestratore tra le fila Vietcong. Trascorsi gli anni americani nella condizione di estraneità e invisibilità propria di un rifugiato e di una spia comunista, agli inizi degli anni Ottanta, con in tasca il passaporto di un certo Vo Danh, il simpatizzante sbarca a Parigi in compagnia dell'inseparabile Bon. La Francia, il paese della lunga dominazione coloniale in Indocina, ha concesso ai due fratelli di sangue l'agognato diritto d'asilo. È l'occasione per entrambi di lasciarsi alle spalle le dolorose ferite del passato. Un'occasione da coltivare attraverso la più pura delle attività capitalistiche, offerta dal Boss vietnamita trasferitosi dal campo di Palau Galang a Parigi: lo spaccio e il commercio di droga. Per Bon rappresenta la possibilità di smettere d'essere un ospite sgradito. Per il simpatizzante, che ha trascorso buona parte della sua vita a credere in qualcosa nel cui cuore non c'era che il nulla, semplicemente un'altra possibilità data al nulla. Un nulla, questa volta, che rende Parigi una città dal fascino torbido e che fa degli intellettuali engagés della sinistra francese frequentati a casa della "zia" vietnamita, cui Man l'ha indirizzato, nient'altro che una fedele clientela delle sostanze del Boss. Un nulla che rende, infine, arduo realizzare il compito che alberga da sempre nell'animo del simpatizzante: la riconciliazione tra i fratelli di sangue di un tempo, Bon e Man, che la Storia, con le sue crudeltà e le sue cieche passioni e speranze, ha collocato su fronti opposti.