Il tempo del nostro giudizio
01.05.2020
È stato un momento epocale, di quelli che entrano dritti nella memoria per non uscirne più. La piazza vuota, il buio che cala. La pioggia, via via più forte. E un uomo vestito di bianco che, davanti al Crocifisso, invoca Dio usando le parole dei discepoli: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Non ti importa di me, di noi? Scene simili a quelle che avremmo visto pochi giorni dopo, in una Settimana Santa altrettanto inedita: la Messa in Coena Domini, la Via Crucis, la Pasqua… Tutti ridotti all’essenziale. Il Papa, pochi altri. E la presenza di Cristo.
Ma in quella preghiera di fine marzo, nel grido di Francesco in una piazza per la prima volta deserta, si è aperta anche una strada. Preziosissima, per chi sta provando a seguirla. Perché, come ha detto il Papa, questa situazione mai vista, capace di «smascherare la nostra vulnerabilità», di ribaltare le «false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende», di farci toccare con mano quanto abbiamo bisogno di Cristo Risorto, non è una condanna, uno squarcio di nulla entrato di colpo nelle nostre vite. È un’occasione, grande.
È «il tempo del nostro giudizio». Non «del tuo giudizio», ha insistito Francesco rivolgendosi a Dio con audacia, ma «del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Il tempo della conversione. Dove a questa parola non corrisponde più nulla di moralistico, come se si trattasse di uno sforzo etico: ci viene chiesto uno sguardo. A chi guardare, cosa cercare. È un passo di conoscenza.
Lo hanno detto molti altri in tanti modi, nelle settimane successive, e anche nelle prossime pagine ne troverete degli esempi. Se questa emergenza così drammatica trascorresse senza una nostra presa di coscienza, senza scoprire qualcosa di più profondo di noi e della realtà, sarebbe una sciagura che si aggiunge al peso insopportabile della morte di tanti, del dolore, della paura. Anzi, di più: metterebbe un’altra pietra davanti al sepolcro della nostra umanità. Perché ci lascerebbe smarriti e vuoti, più di prima.
E invece questo «tempo vertiginoso» può essere altro. Può diventare l’occasione per un «risveglio dell’umano», come dice il titolo del libro uscito proprio mentre mandiamo in stampa Tracce. È un’intervista a Julián Carrón, il presidente della Fraternità di CL. Facendo i conti fino in fondo con «l’irruzione potente della realtà», che «ha fatto riemergere in tutta la sua portata quell’esigenza di capire che chiamiamo “ragione”», affronta le domande che ci stiamo ponendo tutti, senza sconti e scorciatoie. Perché è quasi inevitabile che affiorino, ma è una scelta nostra prenderle sul serio.
Così quel libro, in qualche modo, accompagna il tentativo che facciamo anche noi. Nelle pagine che state sfogliando troverete riflessioni, fatti e testimonianze che aiutino a fare dei passi, a sfruttare la circostanza unica che stiamo vivendo, a renderci conto di più di chi siamo e di cosa ha bisogno la nostra vita. Dell’essenziale.
Che cosa ci strappa dal nulla?
01.04.2020
L’editoriale di questo numero è la lettera che don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha mandato a tutto il movimento.
Milano, 12 marzo 2020
Carissimi amici,
pur non essendoci ancora disposizioni delle autorità circa il prossimo mese di aprile, l’attuale emergenza sanitaria e le problematiche legate all’organizzazione dei nostri gesti ci impongono di disdire tutti i consueti appuntamenti di questo momento dell’anno: gli Esercizi della Fraternità, gli Esercizi dei lavoratori, il Triduo di GS, i momenti della Settimana Santa del CLU, le Via Crucis, la Scuola di comunità in collegamento del 1° aprile.
Questa decisione, imposta dall’emergenza, non fa sparire la presenza insidiosa del Coronavirus tra di noi né attenua la provocazione che essa rappresenta, non ci consente di voltare la faccia dall’altra parte, come se non ci toccasse. Volenti o nolenti, ci riguarda tutti. E, con tutti, noi condividiamo la stessa domanda: come stare da uomini davanti a questa circostanza?
In queste occasioni – che il Mistero non ci risparmia – possiamo cogliere con ancora più chiarezza la grazia del carisma che ci ha investito, verificando la sua capacità di farci stare davanti a quello che accade. «L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 150), ci ha detto don Giussani. È questa concezione della religiosità che ci fa riconoscere qualsiasi circostanza come vocazione. «Vivere la vita come vocazione significa tendere al Mistero attraverso le circostanze in cui il Signore ci fa passare, rispondendo ad esse. […] La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare» (Realtà e giovinezza. La sfida, Rizzoli, Milano 2018, p. 65). Don Giussani era ben consapevole di quale vertigine questo introduca nella vita: «L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto “signore” mi trascina, mi provoca al suo disegno. E dir “sì” a ogni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni. È una posizione vertiginosa» (Il senso religioso, op. cit., p. 189).
È difficile trovare una espressione più adeguata di questa per descrivere la situazione in cui ci troviamo quando stiamo realmente davanti a quello che accade: un vertiginoso essere sospesi «in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze». Eppure è questo l’unico atteggiamento razionale, perché è attraverso quelle circostanze che la presenza del Mistero, di quell’«ignoto “signore”», ci interpella, ci provoca al Suo disegno, al compimento del vivere.
Ma «la ragione non tollera, impaziente, di aderire all’unico segno attraverso cui seguire l’Ignoto, segno così ottuso, così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale, come è il susseguirsi delle circostanze: è come sentirsi in balia di un fiume che ti trascina in qua e in là» (Il senso religioso, op. cit., p. 189). In queste settimane ciascuno potrà vedere quale posizione prevale in sé: se una disponibilità ad aderire al segno del Mistero, a seguire la provocazione della realtà, oppure il lasciarsi trascinare da qualunque “soluzione”, proposta, spiegazione, pur di distrarsi da quella provocazione, evitare quella vertigine. Ciascuno di noi potrà poi verificare la reale consistenza delle “soluzioni” in cui ha cercato rifugio.
Come farci compagnia in questo frangente? Di quale compagnia abbiamo veramente bisogno? Quante volte cerchiamo una risposta svuotando l’avvenimento che ci ha raggiunto, riducendolo a un ambito di rapporti che ci protegga dall’urto delle cose, che ci risparmi la sfida delle circostanze, invece che sospingerci a viverla! Ma una simile compagnia non può rispondere: in momenti come quelli che stiamo attraversando, in cui l’urgenza del vivere si fa ineludibile e potente, diventa più evidente che mai.
Un mio giovane amico si è laureato e ha iniziato una nuova vita. Di conseguenza, non ci possiamo vedere più così spesso come quando frequentava l’università. Di recente si lamentava di questo con me. Gli ho ricordato un brano del Vangelo. Un giorno i discepoli si trovarono in barca con Gesù e si accorsero di essersi dimenticati di prendere dei pani. Nonostante fossero stati testimoni di due miracoli grandi come castelli – due moltiplicazioni di pani come mai erano successe nella storia –, cominciarono a litigare tra di loro perché si erano dimenticati i pani. Facevo dunque notare al mio amico che Gesù era lì, accanto a loro, sulla barca! E loro continuavano a lamentarsi! Il problema non era che fossero soli, perché Gesù era con loro, ma per loro era come se non ci fosse. E infatti discutevano tra loro che non avevano pane! Per mostrare dove fosse il problema, Gesù non fa un altro miracolo. A cosa sarebbe servito farne un altro, dopo tutti quelli che avevano già visto? Che contributo dà allora Gesù? Rivolge loro tre domande. La prima: «Quanti pani sono avanzati dopo la prima moltiplicazione?». E poi: «Quanti ne sono avanzati dopo la seconda?». E infine: «Ancora non capite?» (cfr. Mc 8,19-21). Come è prezioso il contributo che Gesù offre ai suoi amici non risparmiando loro le domande! Non aggiunge spiegazioni, non compie altri miracoli, ma li sollecita, dal di dentro della loro esperienza, a usare fino in fondo la ragione, in modo che essi possano rendersi conto di chi hanno incontrato (avevano con sé il signore del “panificio”!). Se non avevano capito, attenzione, non era perché fossero da soli o non disponessero di elementi sufficienti, ma perché non avevano ancora usato bene la ragione. Gesù infatti si era svelato loro attraverso i molti segni che avevano visto, di una risposta eccezionale, finalmente corrispondente al cuore, al loro e all’altrui bisogno di uomini, in tante occasioni, anche drammatiche, ma essi non avevano ancora riconosciuto chi era, con quel riconoscimento che si chiama fede e che «fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà» (Generare tracce nella storia del mondo, Bur, Milano 2019, pp. 45-46).
Gesù approfitta di ogni circostanza per far vedere ai suoi discepoli il Suo modo di stare davanti a tutto quello che accade, a qualsiasi imprevisto, anche doloroso, affinché essi sperimentino la pertinenza della Sua presenza, del rapporto con Lui – della fede –, alle esigenze della vita. «Il contenuto della fede – Dio fatto uomo, Gesù Cristo morto e risorto – che emerge in un incontro, perciò in un punto della storia, ne abbraccia tutti i momenti e aspetti, che come da un vortice sono portati dentro quell’incontro e devono essere affrontati dal suo punto di vista, secondo l’amore che da esso scaturisce, secondo la possibilità di utilità al proprio destino e al destino dell’uomo che esso suggerisce» (Generare tracce nella storia del mondo, op. cit, p. 40). Se l’incontro fatto non diventa per noi come un vortice dentro il quale sono portati tutti i momenti e aspetti del vivere, ci troveremo smarriti davanti a ogni nuovo imprevisto, a ogni nuova strettoia.
È così, circostanza dopo circostanza, nell’esperienza continua di una “convenienza” inaspettata, che «l’incontro fatto, per sua natura totalizzante, diventa nel tempo [sottolineiamolo: nel tempo] la forma vera di ogni rapporto, la forma vera con cui guardo la natura, me stesso, gli altri, le cose. Un incontro, se è totalizzante, diventa forma e non semplicemente ambito di rapporti: esso non stabilisce soltanto una compagnia come luogo di rapporti, ma è la forma con cui essi vengono concepiti e vissuti» (Generare tracce nella storia del mondo, op. cit, p. 40).
È a questo livello della questione – il riconoscimento della natura totalizzante dell’incontro, che diviene forma vera di ogni rapporto – che vengono in nostro aiuto presenze veramente «amiche», che ci testimoniano la strada che ci consente di vivere una situazione come quella attuale. Presenze che non programmiamo noi, così eccezionali – pur dentro le circostanze di tutti – che ci lasciano senza parole, in silenzio. «D’improvviso sono stata catapultata in trincea. Sembra di essere in guerra. Il mio quotidiano lavorativo e familiare in un giorno è cambiato. Da medico, da mamma, da moglie mi ritrovo a dormire in isolamento da mio marito, a non vedere i miei figli da due settimane, a non poter avere un contatto diretto con il paziente. Tra me e i miei malati c’è una maschera, una visiera e il loro scafandro. Spesso sono anziani che vivono da soli questo momento. Hanno paura. Muoiono da soli. E i parenti, isolati a casa, non possono assistere il loro caro, la loro cara, e ricevono telefonate nella notte in cui comunico loro la morte del loro familiare: tra me e loro c’è il telefono. Io cosa posso fare per loro umanamente, da cristiana? Entro in reparto, cerco un sorriso e l’abbraccio di un’infermiera amica: in questo momento di isolamento ho bisogno anche di sentirmi fisicamente insieme. E posso abbracciare solo loro. Davanti a tutto ciò mi sostiene rileggere tutti i giorni la lettera di Carrón al Corriere della Sera («Ecco come nelle difficoltà impariamo a battere la paura», 1 marzo 2020, p. 32), che mi aiuta a rimettermi in una posizione di apertura, a chiedermi che cosa in fondo regge. Sono chiamata a riconoscere l’essenziale, il vero. Poi c’è tutto il percorso fatto sul testo di Scuola di comunità: la prova è il modo in cui la fede può crescere se la libertà è giocata di fronte alla Preferenza che ci chiede tutto. E questo è vertiginoso. Noi dobbiamo affidarci e assumerci questo rischio. La certezza che sostiene la nostra vita è un legame, e c’è un cammino da fare per arrivare a questa certezza affettiva. Le circostanze ci sono date per attaccarci più a Lui, ci sta chiamando in un modo misterioso. La fede è fidarsi che Lui ci sta chiamando. “Solo quando domina una speranza fondata siamo in grado di affrontare le circostanze senza fuggire”. Siamo chiamati più che mai a rispondere a Lui che ci chiama in modo misterioso. È questa certezza che posso dare ai miei malati, ai parenti, oltre che fornire le cure mediche».
Questa è la sfida davanti alla quale è ciascuno di noi. In questo momento, in cui il nulla dilaga, il riconoscimento di Cristo e il nostro «sì» a Lui, anche nell’isolamento in cui ognuno di noi potrebbe essere costretto a stare, è già il contributo alla salvezza di ogni uomo oggi, prima di ogni legittimo tentativo di farsi compagnia, che pure va perseguito nei limiti del consentito. Niente è più urgente di questa autocoscienza.
Anche se non potremo fare gli Esercizi della Fraternità, niente ci impedisce di proseguire il nostro cammino per continuare a incrementare la certezza, quella «speranza fondata» di cui abbiamo assoluto bisogno per vivere in queste circostanze. Perciò vi invio la domanda che avevo pensato per la preparazione degli Esercizi, mai così pertinente alla situazione: «Che cosa ci strappa dal nulla?».
Tutti abbiamo visto quanto è stato utile il quesito inviato lo scorso anno per essere attenti all’esperienza che facevamo. Quest’anno può essere ancora più decisivo. Invito perciò chi lo desidera a inviare il proprio contributo a comunicazionifrat@comunioneliberazione.org.
Vedremo poi come fare tesoro tutti insieme del percorso delle settimane che ci aspettano e come rispondere nella maniera più adeguata alle domande che emergeranno. Aperti all’imprevisto.
È un tempo inedito e drammatico. Che portata possono acquistare i gesti a noi così cari come l’Angelus al mattino, a mezzogiorno e alla sera, il Memorare prima di andare a dormire, il lavoro quotidiano, personale e in famiglia, sulla Scuola di Comunità, la giaculatoria Veni Sancte Spiritus al primo risveglio e in ogni istante in cui la circostanza diventa così sfidante da aver bisogno di gridare per poter stare davanti ad essa!
Vi raccomando la carità fraterna, con una attenzione ai bisogni che emergono fra di noi, rimanendo in contatto come si può, sfruttando al meglio tutti gli strumenti che oggi la tecnologia ci offre.
Infine, secondo l’invito di papa Francesco, «continuiamo a pregare per gli ammalati, gli operatori sanitari, tanta gente che soffre questa epidemia».
Vi abbraccio uno ad uno in questa Quaresima così decisiva per la nostra conversione a Cristo vittorioso sulla morte.
Accompagniamoci, lasciandoci sfidare dai tempi che viviamo, per non perdere l’occasione che il Mistero ha preparato per noi!
Vostro,
don Julián Carrón
Può sembrare un tema da addetti ai lavori, qualcosa che interessa solo chi studia, insegna o ha figli ventenni. Invece no. C’è una combinazione di fattori che rende l’università un punto di osservazione utile a tutti, perché fa venire a galla in maniera limpida alcuni fattori che ci riguardano in maniera trasversale.
Il primo è il contesto. L’università è uno degli ambienti che stanno cambiando di più, in questi anni. Non si tratta solo di trasformazioni nell’utenza o nell’offerta, del “chi sale e chi scende” tra Facoltà umanistiche o scientifiche, o tra i singoli Atenei. È proprio la vita universitaria che cambia, improntata sempre di più a un efficientismo fatto di elementi anche utili (valutazione, regole e via dicendo), ma che spesso hanno un contrappasso: ci si ritrova, in genere, più soli. A studiare, a cercare di tenere il ritmo, a vivere. Si fanno più rarefatte le iniziative comuni, le associazioni, persino la politica, mentre si diffondono un individualismo sottile e la tendenza a misurarsi in termini di performance. Insomma, è come se fossero anticipati certi caratteri, a volte soffocanti, del “dopo”, del mondo del lavoro.
Ma l’altro fattore, decisivo, sono i ragazzi. Che – sempre in generale, chiaro – oggi affrontano l’impatto con questo passaggio cruciale della vita con meno certezze di prima, apparentemente più fragili e di sicuro più isolati rispetto ai loro omologhi di dieci o vent’anni fa (per non parlare di momenti in cui l’università divenne in qualche modo il centro del mondo, come il Sessantotto e il suo post…). Ma proprio per questo, paradossalmente, con un bisogno ancora più scoperto e impellente: il bisogno che in quel luogo accada qualcosa, si accenda una scintilla. Che possano incontrare maestri.
Di più, dei padri. Ovvero, compagni di strada che non si limitino ad arricchire il loro bagaglio di strumenti e competenze, ma offrano alla loro vita «una proposta carica di significato», per usare un’espressione sintetica e potente di don Giussani. E si coinvolgano con loro nel verificarla, perché se c’è una cosa evidente come poche è che a un ventenne di oggi (ma non è vero anche per tutti noi, ormai?) le idee e i discorsi non bastano più. Servono padri.
È per questo che un viaggio nell’università come quello che vi proponiamo, si carica di domande che toccano tutti. Come è possibile incontrare una paternità in atto, una proposta di vita all’altezza del nostro desiderio?
Dove, come può succedere? E cosa accade alla nostra umanità – al nostro desiderio spalancato – quando questo incontro avviene, e la scintilla si accende? In queste pagine trovate storie e testimonianze che provano a raccontarlo. Buona lettura, e buon viaggio.
Difficile trovare un tema più trasversale, nello spazio – riguarda davvero tutti, a qualsiasi latitudine – e nel tempo – tocca allo stesso modo chiunque, dagli anziani, sempre più isolati, ai giovani, su cui ormai esiste un’intera letteratura su quanto siano «insieme, ma soli» (espressione di Sherry Turkle, celebre sociologa americana). La solitudine è un dato che lambisce la vita di ognuno di noi. E non dipende solo da quanti legami abbiamo, dalla nostra rete di relazioni più o meno ricca. È esperienza altrettanto comune sentirsi soli anche in momenti in cui siamo circondati da amici. Anzi, forse sono le occasioni in cui avvertiamo di più la radicalità di questo fattore.
«La solitudine vera non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può trovare risposta in noi o negli altri», osservava don Giussani: «Si può benissimo dire che il senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio impegno con la propria umanità. Può capire bene tutto ciò chi abbia creduto di aver trovato la soluzione di un suo grosso bisogno in qualcosa o in qualcuno: e questo gli sparisce, se ne va, o si rivela incapace». C’è un punto ultimo, al fondo del nostro io, in cui siamo inesorabilmente soli. Perché nulla di ciò che abbiamo davanti, e in cui riponiamo man mano le nostre attese di compimento, riesce a riempirci il cuore.
Condizione strutturale, quindi. Inevitabile. Ma la solitudine, allora, è una condanna? L’esperienza drammatica che facciamo tutti di uno stato d’animo così acuto da risultare a volte insopportabile (quanto tempo, energia e soldi se ne vanno per eludere i momenti in cui siamo soli con noi stessi? O quanta paura abbiamo, spesso, del silenzio?) è senza vie di uscita? Insomma, dobbiamo rassegnarci al fatto che la nostra stessa umanità ci sia nemica, o c’è un’altra possibilità?
È la strada che esploriamo in questo numero. Che la solitudine non sia solo questo, ma uno strumento per conoscere. Noi stessi, e la realtà. Anzi, che proprio quel confine ultimo dell’io sia il luogo a cui ancorare in maniera finalmente profonda, consapevole – nostra –, il rapporto con il Mistero. L’ambito in cui scopro il mio legame originario con Dio, che mi fa essere ora, che mi è compagno continuamente, perché è alla radice di me stesso. E in cui si svela il modo unico, originale, con cui Lui risponde alle mie attese e domande. Al di là di qualsiasi forma esterna, organizzazione, persino amicizia.
In Generare tracce nella storia del mondo, don Giussani nota che l’incontro cristiano «per sua natura totalizzante, diventa nel tempo la forma vera di ogni rapporto, la forma con cui guardo la natura, me stesso, gli altri». Precisando: «Forma, e non semplicemente ambito di rapporti», perché «non stabilisce soltanto una compagnia come luogo di rapporti, ma è la forma con cui essi vengono concepiti e vissuti». Ecco, è solo mettendo radici nel fondo del nostro io – cioè rispondendo a questa ultima solitudine – che Cristo può iniziare a dare «forma» alla vita. A plasmare la coscienza che abbiamo di noi. E a farci scoprire, in un sussulto di meraviglia, che qualsiasi cosa accada, non siamo mai davvero soli. Perché Lui è.
"Parole e gesti, insieme. Gli uni danno carne alle altre, ne fanno vedere tutta la profondità, le rendono sperimentabili. È così che papa Francesco sta allargando cuori e ragione anche di chi è lontano da Cristo, non lo ha mai conosciuto – o riconosciuto. È così che diventa, per tutti, un testimone. Lo abbiamo visto subito, dai primi momenti del Pontificato. E più si ha familiarità con lui, più questa capacità di toccare tasti profondi – diventati irraggiungibili anche dai discorsi più coerenti e meglio argomentati – diventa solare. Ma che cosa vuol dire vederlo da vicino, in azione? Cosa ci fa capire stare al suo fianco, seguirne i passi mentre incontra, parla, guarda, abbraccia?
Un viaggio con il Papa è un’esperienza che spalanca una finestra, su di lui e sul mondo. E noi vi offriamo di condividerla. Lo spunto è la presenza di un’inviata di Tracce sul volo che ha portato Francesco in Thailandia e in Giappone, qualche settimana fa. Un universo molto lontano dall’“Occidente cristiano”, ma attraversato dalle stesse domande e dagli stessi problemi, che lui ha sintetizzato con un’espressione potente: «La perdita del senso di vivere».
Il racconto approfondito di quella settimana va oltre la cronaca di un viaggio apostolico, per quanto importante: è un’occasione per immedesimarsi di più in lui, nel suo pensiero, nel suo modo di muoversi per rispondere a questo dramma, trasversale alle vite degli uomini. È una possibilità di guardare dove e come guarda, cosa e come segue. Ma è anche un modo per capire meglio da dove nasce la sua paternità, quell’autorevolezza che lo rende capace di risvegliare l’umanità e l’attesa di chiunque (in continuità con il tema che abbiamo affrontato negli ultimi numeri).
È di questo che il mondo ha sete. Lo si vede anche nelle pagine successive del giornale. Dal racconto di una realtà come la Fraternità San Giuseppe, singolare e profonda nel suo modo di rendere presente Cristo nel mondo, alle testimonianze delle lettere, agli accenti che si trovano negli altri articoli. Fino al percorso di un libro appena uscito, che mostra benissimo cosa succede nelle piaghe di un Paese ferito e diviso, come l’Italia degli Anni di piombo, quando è quella stessa testimonianza cristiana a insinuarsi e creare percorsi di riconciliazione. Si spalancano finestre, appunto. E si riapre l’avventura del «senso di vivere»."
L’ultimo arrivato
Nell’ultimo numero di Tracce avevamo approfondito un punto decisivo della Giornata d’inizio di CL, l’incontro che, all’avvio dell’“anno sociale”, contrassegna la proposta educativa del movimento e indica un percorso di lavoro. Era la descrizione del contesto in cui siamo immersi – un “nichilismo passivo” che avvolge la società e le nostre vite anestetizzando energie, gusto, desideri – e l’indicazione dell’unica cosa che può strapparci da quel nulla: dei testimoni. Fatti e persone che mostrano un modo diverso di vivere, comunicano una proposta di significato così affascinante da diventare autorità. Ovvero, padri. Perché generano e fanno crescere.
È un tema così cruciale che ora lo riprendiamo. Andando a fondo di questa «autorità» che non ha nulla a che vedere con il potere, come sottolineava don Giussani nell’intervento ripreso proprio in quelle pagine, ma «è sinonimo di paternità». Ed ha caratteristiche inconfondibili: «È il luogo dove la vita nuova è più limpida e chiara»; «si dimostra nell’esperienza di una maggiore libertà»; e, proprio per questo, è anche un «luogo di conforto, dove si vede che Cristo vince». Cioè dove si apre per chiunque la possibilità concreta che la fatica, il dolore, le circostanze non siano una gabbia: l’io può respirare e vivere lieto, sempre.
È quello che cerchiamo, tutti. Chi non vorrebbe scoprirsi nell’ esperienza più libero, e lieto? Chi non desidera che la sua vita sia utile, piena, capace di generare e di «aprire sentieri nuovi» anche in un mondo che sembra impermeabile alla fede e invece offre a noi cristiani «una grande occasione» (come dice Charles Taylor, uno dei maggiori filosofi viventi, nell’intervista che trovate più avanti)?
Ecco, il “Primo Piano” è un piccolo viaggio in questa paternità. Imperniato, come sempre, su storie e testimonianze, oltre che su riflessioni che aiutano ad approfondire: perché anche qui, l’unico criterio valido è l’esperienza. Quella «autorità paterna», proprio in quanto non è questione di ruoli (neanche di quelli canonici: genitori, insegnanti, sacerdoti, leader vari...), accade dove vuole, la si può vedere solo in atto. «Può essere autorità la donnetta che mette una moneta nel gazofilacio del tempio, più che neanche il capo dei farisei», ricordava don Giussani. Non si impone per meccanismi di potere: semplicemente, ci chiede di guardarci attorno, e riconoscerla.
In fondo, è quello che è accaduto ai pastori raffigurati nell’Adorazione di Caravaggio, proposta come Volantone di Natale da CL. Guardavano la persona meno potente del mondo, l’ultimo arrivato, letteralmente: un bambino appena nato in una greppia. Ma, nella loro semplicità di cuore, intuivano che quel Figlio, in realtà, rendeva visibile il Padre, il Mistero che li stava generando in quel momento. Che genera noi, ora. Buon Natale.
C’è una parola che affiora sempre più spesso, tra giornali e dibattiti tv. E se non arriva così com’è ai dialoghi tra amici o ai discorsi da bar, è solo perché non ci si accorge di quanto sia efficace nel descrivere qualcosa che viviamo tutti, nessuno escluso. È «nichilismo», ovvero la parola più vicina a «nulla», la più capace di raccontare l’esperienza vissuta di quel «nulla».
Non ha più il significato di una volta, o perlomeno non solo. Non dice di una ribellione violenta, della voglia di distruggere una realtà che non ci piace (pure se di rabbia in giro ce n’è tanta, sui social come in molte piazze del mondo…). Piuttosto, indica qualcosa di più sottile, che in fondo sta alla radice anche della violenza.
È la perdita di attrattiva della realtà, lo smarrimento del senso – e quindi del gusto, ché le due cose sono legate a filo doppio – del vivere. La mancanza di uno scopo in grado di attirarci, di mobilitare la nostra energia affettiva, di conquistarci fino in fondo. «Non esiste nessun ideale per il quale possiamo sacrificarci, perché di tutti conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cos’è la verità», scriveva André Malraux già nel secolo scorso. È una sintesi perfetta dell’oggi.
Eppure, se c’è un vantaggio nel malessere diffuso, è proprio questo: ormai è chiaro, lampante, che nessuna idea, appunto, è in grado di tirarcene fuori. Nessuna teoria. Solo l’esperienza, qualcosa che ci accade (come si diceva nel numero scorso). È soltanto lì che possiamo cercare vie d’uscita. E se guardiamo l’esperienza, ci rendiamo conto di due cose.
La prima è che anche il cuore più spento – persino il nichilista più accanito – conserva dentro di sé un punto irriducibile: desidera la felicità. È inevitabile, quasi nostro malgrado; abbiamo un bisogno – meglio: siamo un bisogno – di compimento, anche quando tutto sembra dire il contrario. E questa irriducibilità si manifesta in tanti modi, può venire fuori per le strade più impensabili, riaprendo la partita.
Ma sempre l’esperienza, se siamo leali, ci offre anche un secondo dato: questo cuore che non si arrende è pronto ad accendersi appena incontra qualcosa capace di ridestarlo. Non un’idea, ma una presenza, un fatto, un volto che vive e offre una proposta all’altezza del nostro bisogno. E per questo (si diceva nel testo della Giornata d’inizio anno di CL, allegato sempre all’ultimo Tracce) diventa un’autorità. Nel senso letterale del termine: «Fa crescere», fa rifiorire la nostra umanità. La riscatta dal vuoto.
In queste pagine, trovate esperienze che mostrano proprio questa dinamica. Ordinarie, come la vita; o drammatiche, come tante pieghe della vita. Ma sono racconti di persone rilanciate da un incontro autorevole, da una proposta di significato – e di gusto – inattesa. Insomma, dall’accadere di una imprevedibile paternità, altra parola imponente. Anzi, decisiva. Al punto che la riprenderemo, già dal prossimo numero…
Perché scrivere in copertina «vieni e vedi»? È un invito a chi magari si ritrova in mano questo giornale per la prima volta, e lo ha ricevuto da un collega, da un amico o da un volto incontrato per strada. Ma è anche il cuore del cristianesimo. Che, al di là di quanto possiamo pensarne, non è una collezione di idee, regole e valori: è anzitutto una vita. Fatti e persone. Qualcosa che accade e, quando lo intercettiamo, ci sorprende, per la sua bellezza. E incuriosisce, attira. Sollecita dei passi per scoprirne l’origine, per vedere da dove nasce questa novità così inattesa eppure corrispondente alla nostra umanità.
In quel «vieni e vedi» detto da Filippo allo scettico Natanaele – come nei tanti «seguimi» che costellano il Vangelo – c’è tutta la potenza dell’unica strada che può vincere lo scetticismo, oggi come duemila anni fa: l’esperienza. «Vedi tu stesso, giudica tu. Verifica tu se questa novità che ti ha incuriosito è interessante per la tua vita, se la rende più intensa e più vera. Se abbraccia tutta intera la tua domanda di significato e di felicità».
È da brividi, la strada che ha scelto Dio per farsi conoscere e amare. Da brividi perché è l’unica possibile a noi, l’unica veramente umana: passare attraverso la nostra esperienza. Sfidando anche l’ultima riduzione che possiamo fare davanti a una proposta così, perché la parola “esperienza” è tanto immediata quanto, spesso, travisata. Tutti siamo disposti a riconoscere che, come diceva don Giussani, «il cammino al vero è un’esperienza»: si cresce e si impara solo attraverso incontri, avvenimenti, cose che ci vengono dette o ci accadono. Quello che non passa da lì, ci sembra astratto. Eppure – ed è qui l’equivoco – “fare esperienza” è molto di più che “accumulare cose fatte”: richiede l’accorgersi di che natura abbiano quei fatti. E più sono imprevedibilmente straordinari, più occorre questo passo di consapevolezza perché non scivolino via sepolti da un semplice contraccolpo sentimentale («che bello!»). Un avvenimento affascinante, di per sé, non ci fa crescere (lo stesso Vangelo è pieno di gente che non viene scossa neanche dai miracoli). Accorgersi di che si tratta, di chi ce lo sta consegnando come occasione per noi, sì. Può cambiarci.
Cristo scommette tutto su questo. Non si appella a regole, non impone nulla: si sottopone al vaglio della nostra esperienza. Alla semplice lealtà con cui, se siamo colpiti da persone che vivono in maniera stranamente affascinante, assecondiamo la domanda che ci vediamo affiorare dentro: «Di che si tratta? Chi sono questi?». È la stessa domanda – «Chi è costui?» – che trovate nell’allegato. È il testo della Giornata d’Inizio Anno di CL, la proposta di un cammino da fare insieme che poggia proprio su questo: l’esperienza. Ecco, l’augurio è che si spalanchi sempre più questa curiosità. In chi per la prima volta legge racconti come quelli delle prossime pagine, dalla vita dei giovani di GS alle testimonianze arrivate da tanti angoli di mondo.
E in chi su questa strada cammina da tempo, ma continua ad avere bisogno di fatti che accadono ora per non darla per scontata. Per non smettere di crescere.
A volte è facile darlo per scontato. Soprattutto se ci si va da un po’ di tempo, se è diventato un appuntamento fisso immergersi per qualche giorno d’agosto nella bellezza intensa e caotica del Meeting di Rimini.
E dato che la kermesse ha appena compiuto quarant’anni, restando fedele a se stessa nella sua formula efficacissima fatta di dialoghi, mostre, spettacoli e di un popolo vivo, si rischia di abituarsi, di non rendersi più conto della sua eccezionalità.
Invece il Meeting è davvero fuori dall’ordinario. Per quello che succede, ovvero per come continua a incontrare tutti e a far parlare tra loro mondi che altrove fanno fatica persino a guardarsi, cosa sempre più urgente in una società lacerata (qui «l’incontro è tra persone diverse che raccontano la propria esperienza di vita, e più diverse sono, più è sincero l’interesse che suscitano», ha scritto acutamente Antonio Polito, vicedirettore del Corriere, su 7). E per come succede, aspetto che colpisce nel profondo chi arriva “da fuori”: i volontari, la gratuità, le migliaia di presenze, i giovani... «Non ho mai visto un cristianesimo così», ha detto uno degli ospiti durante una cena. Cogliendo, di colpo, la radice, il punto sorgivo che da sempre – mentre tutto, intorno, cambia fisionomia o sparisce – continua ad alimentare questa bellezza, con un’imponenza tale che è impossibile ricondurla alle capacità di chi ci lavora.
Nello “speciale” che abbiamo regalato ai nostri abbonati a Rimini, Julián Carrón, guida di CL, ricordava come nel Meeting emerga con chiarezza la preoccupazione di fondo di don Giussani: «La generazione del soggetto, di un adulto appassionato alla vita. Tutto il resto è conseguenza». E per questo se si vuole capire davvero un avvenimento così fuori dall’ordinario, e la sua sorprendente «presenza carica di proposta» per tutti, bisogna arrivare fin lì, alla fede: «Solo l’avvenimento cristiano, vissuto come sorgente di un ideale, è in grado di creare amicizia, cioè uno spazio dove incontrare “una persona con un messaggio dentro”». All’origine di questa bellezza c’è Cristo. E il Meeting è un’occasione per incontrarlo, con qualsiasi background si arrivi.
È per non perdere questa occasione che vi offriamo una piccola antologia delle cose accadute a Rimini. Fatti, episodi, incontri – la vita, che al Meeting ha il sapore inconfondibile di un’intensità lieta. E le parole dette sul palco, i contenuti di alcuni incontri. Hanno uno spessore e una ricchezza tali che vale la pena di riprenderli. Lo facciamo pubblicandone dei brani, oltre al testo integrale dell’intervento principale. È una scelta, chiaro. Risente dei limiti di spazi e di tempi e, per sua natura, è arbitraria. Deve lasciare fuori cose altrettanto significative (potete riprenderle dal web, su www.clonline.org o dal sito del Meeting) e fili che contiamo di recuperare più avanti (si pensi ai bellissimi dialoghi su diritti e doveri o sull’intelligenza artificiale). Ma è un modo per non smarrire spunti che, paradossalmente, rischiano di perdersi proprio per la ricchezza di tutto ciò che li circondava a Rimini. E per stupirsi, di nuovo, di quella origine.
È la stessa ricchezza che trovate nel resto del giornale: dalle lettere, alle testimonianze dai Balcani, al focus sull’Amazzonia, protagonista del prossimo Sinodo. Storie diverse, ma con una sola sorgente: quell’«avvenimento cristiano» che, vissuto, genera uomini. E amicizia.
Tracce n.6, Giugno 2019
Un altro modo di conoscere
01.06.2019
Difficile trovare una domanda più urgente di questa, più intrecciata a filo doppio alla trama delle nostre giornate e dei nostri rapporti, a ciò che ci accade e che facciamo, ora dopo ora, e reclama – urla – il bisogno di lasciare tracce, di non finire nel nulla da cui tante volte le circostanze sembrano avvolte. Che cosa regge l’urto del tempo? Cosa permette che la vita, la nostra vita, non scorra invano, ma segni un cammino capace di costruire, noi stessi e il mondo che ci sta attorno?
In fondo, è la domanda di tutti. Qualsiasi idea abbiamo, qualsiasi posizione o visione del mondo abbiamo deciso di abbracciare – posto che se ne sia scelta una. È la realtà stessa a farla venire a galla, quando e come non ce lo aspettiamo.
È per questo che la trovate, oltre che sulla nostra copertina, sul libretto che alleghiamo a Tracce: è il resoconto degli Esercizi spirituali della Fraternità di CL. Lezioni e assemblea imperniati proprio su questa necessità: mettere la fede – l’avvenimento di Cristo così come accade nelle nostre vite – alla prova della realtà, per verificare se tiene, se aiuta a diventare uomini.
Quello che trovate nel libretto è un percorso reale, possibile a tutti. 
Non si appoggia su teorie: nessuna idea può rispondere a quella domanda. Piuttosto, indica una vita diversa, una modalità di stare al mondo che genera un altro modo di conoscere e di guardare la realtà. E la scava nei suoi fattori costitutivi fino a riconoscerne l’origine, il punto sorgivo: Cristo.
Se la fede non arrivasse fin lì, a rispondere a quella domanda, non servirebbe a nulla. Ma se non mostrasse questa sua capacità dall’interno della nostra esperienza, se fosse solo la ripetizione di una dottrina pur vera, sarebbe ancora più inutile, perché astratta. Non smuoverebbe nessuno.
La nostra offerta a chi ci legge è impegnativa: è la proposta di un lavoro. Richiede tempo per approfondire, vagliare, verificare. Non è un caso che lo stesso libretto sarà oggetto della proposta educativa di CL per i prossimi mesi.
Ed è per accompagnare l’inizio di questo lavoro che, stavolta, abbiamo scelto di dedicare agli Esercizi il “Primo piano”. Sono storie e testimonianze, che documentano cosa succede quando si inizia a prendere sul serio quella domanda e a fare per sé quella verifica. Semplicemente, cambia la vita. In tutte le sue declinazioni: il lavoro, l’università, la malattia, la politica… E dovunque: dall’Europa scossa dalla tornata elettorale all’Amazzonia, al Sud Sudan. 
Ai tanti luoghi dove la storia, scorrendo, in fondo fa riemergere sempre e soltanto un’urgenza: che esista qualcosa che duri nel tempo, per sempre.
Tracce n.5, Maggio 2019
Una vita che allarga la vita
03.05.2019
Seeking a Path Forward, «cercare una strada per andare avanti». Era il titolo del tour americano di presentazioni della biografia di don Giussani, avvenuto un mese fa. Ma a guardare bene, è pure il problema che abbiamo tutti, in qualsiasi condizione e in qualsiasi parte del mondo viviamo: trovare una strada per andare avanti, fare un cammino. Ovvero, imbattersi in qualcosa che ci permetta di guardare alla nostra vita non come a un insieme di circostanze più o meno casuali, di problemi da affrontare in sequenza, slegati l’uno dall’altro, ma come un percorso disegnato per farci crescere, diventare più uomini. E trovare qualcuno che in questo percorso ci accompagni, non ci lasci soli nell’affrontarlo. Soprattutto quando le curve e gli snodi si fanno più duri, e Dio solo sa in quanti e quali modi il cammino della vita può diventare impervio.
Ecco, quello che raccontiamo nelle prossime pagine ha esattamente questa fisionomia. È un’esperienza di vita e di fede che si offre come «compagnia affidabile a chi cerca una strada», come leggerete nel diario del viaggio scritto da Alberto Savorana, autore di quella stessa biografia e testimone, nella raffica di eventi vissuti in prima persona in giro per gli States, di decine di incontri con persone che, scoprendo un certo modo di vivere il cristianesimo – il carisma di don Giussani –, dicono di aver trovato proprio questo: un aiuto alla loro vita, una «compagnia quotidiana» nel lavoro, nel rapporto con i figli, gli amici, i problemi… Una novità inattesa, in un contesto in cui troppo spesso il cristianesimo, prima che essere una vita, è ridotto a una posizione culturale, un insieme di valori e posizioni etiche – pur giuste – da difendere con sempre più difficoltà. Tanto più ora che la Chiesa è messa alla prova da una crisi senza precedenti, scossa come è dal dramma della pedofilia.
Ma lo stesso è accaduto, con altre modalità, anche in America Latina. Dove le circostanze sono diverse e le fatiche pure (basti pensare alle sofferenze drammatiche del Venezuela, o alle tante sacche di crisi politica ed economica), ma il problema, in fondo, rimane lo stesso per tutti: vivere una vita piena, veramente umana. Pure lì, una serie di incontri e di fatti avvenuti più o meno nelle stesse settimane (l’occasione era l’assemblea dei responsabili locali di CL con Julián Carrón) testimoniano la stessa vivacità, la medesima pertinenza di un certo modo di vivere la fede alle esigenze e ai bisogni di chiunque, dovunque. Tanto che, sfogliando le pagine di questo numero, ne troverete tracce pure altrove, dalle lettere all’intervista che riprende il tema dell’Europa, al dialogo con il regista Giacomo Campiotti.
Il cristianesimo, ha sempre mostrato don Giussani, è un avvenimento, è una vita che “allarga” la vita. Bene: la gente, quella vita, continua – per grazia – ad incontrarla. E a trovarci dentro una strada per sé. È un dono che riceviamo, non è certo merito nostro. Ma che gratitudine poterlo condividere con tutti, nel mondo di oggi.
All’inizio era un ideale. Poi, una specie di miracolo. Ora sembra soltanto un problema. L’Unione Europea, quell’impensabile puzzle di lingue e culture che si è incastrato un pezzo dopo l’altro regalando attese e speranze a 500 milioni di persone, agli occhi di tanti è diventato qualcosa di sempre più lontano, astratto, addirittura ostile. Tanto più alla vigilia di un voto confuso come quello del 23-26 maggio.
I motivi sono tanti. Molti reali, legati ai limiti e agli errori di una realtà che ha perso per strada una buona fetta dell’ispirazione originaria (a cominciare dalla solidarietà reciproca). Ma altri dipendono soprattutto da noi, dalla nostra miopia. Guardi l’Europa e non vedi più che è uno spazio di libertà e pace come non si era mai visto nella storia, non solo dell’Occidente. Il valore attribuito alle persone, l’accoglienza, gli scambi tra culture, l’Erasmus, le frontiere aperte, un mercato comune… Tutto dato per ovvio, per scontato. Mentre non lo è. Non lo è mai stato. Anzi.
La vicenda dell’Unione è una di quelle in cui si capisce meglio che cosa sia la caduta di evidenze che, a torto, davamo per acquisite e condivise per sempre. E in cui si vede con più chiarezza un fenomeno che ci riguarda tutti: se ti allontani dalla fonte che ha dato vita a certi valori di fondo – la persona, il lavoro, la libertà, la stessa democrazia –, da ciò che li ha generati e resi storici, vissuti, quei valori, prima o poi, decadono. Staccati dall’origine, non reggono all’usura del tempo. Da qui la domanda: che cosa c’è all’origine di quei tratti fondamentali dell’Europa? Da dove arrivano, come prendono vita – e come possono riprenderla? E la fede c’entra qualcosa con questo, o no? Attenzione: non si tratta di tornare a dibattere sulle “radici cristiane”, discussione infinita e ormai un po’ sterile. Rifiutarle da parte delle istituzioni europee è stato un errore storico e un peccato di arroganza, non c’è dubbio. Ma è un errore anche fermarsi lì. Il problema non è il rapporto con il passato: è l’ora. Quelle radici sono ancora vive, oggi? E come, dove?
Non è una domanda a cui può rispondere un dibattito. Si può solo andare a vedere, cercare storie, fatti che mostrino quella vita. È la strada che imbocchiamo con questo numero, sulla scia del “Primo Piano” di marzo, dedicato alla politica: indicare, assieme alla riflessione, delle testimonianze. Segni vivi di una presenza cristiana che ha contribuito a creare l’Europa, a farla nascere secoli fa dalle macerie dell’Impero devastato dai barbari e a farla risorgere, in forma nuova, dagli orrori dell’ultima Guerra mondiale. E che offre il suo contributo oggi, per aiutare a tirarla fuori dalla crisi e restituirle il volto che ha avuto negli ultimi sessant’anni: quello di uno spazio di libertà per tutti. Un luogo «dove ognuno può essere immune dalla coercizione, fare il proprio cammino umano e condividerlo con chi trova sulla propria strada», come diceva tempo fa Julián Carrón, guida di CL, in un intervento confluito, poi, nel suo La bellezza disarmata. Erano parole del 2014, vigilia delle ultime elezioni europee. Sono ancora più urgenti ora.