Sì, viaggiare. Ma «come» viaggiare? E perché? Per sperimentare luoghi diversi, luoghi che non ci appartengono ma magari ci «aspettano». Il viaggio, quello con la V maiuscola, quello sottratto alle urgenze compulsive del lavoro e del turismo, è comunque un?esperienza esistenziale straordinaria e necessaria perché viene pensato, immaginato, «vissuto» prima di essere compiuto. E poi viene metabolizzato, ripensato, memorizzato, trasfigurato. Viaggio, dunque sono, si potrebbe dire dell?uomo in generale, e dell?uomo contemporaneo nello specifico. Viaggi drammatici per sopravvivere, per milioni di persone. Viaggi per vivere, comunque e in ogni caso. Per sentirsi vivi.
Ormai non esiste famiglia dove non ci sia un tiglio, un parente o un amico che non sia disoccupato. Se ne parla come di un appestato, abbassando la voce per non farsi sentire dagli estranei, e comunque sospettando che, sotto sotto, si tratti di un fannullone o di uno scapestrato. Con la disoccupazione giovanile stabile oltre il 40 per cento, l'Italia è oggi un Paese con milioni dì questi fannulloni e scapestrati. Tutte le soluzioni sperimentate finora, compresi i voucher e il jobs act, celano l'intento di ampliare a dismisura un esercito di riserva professionalizzato e docile, disponibile a entrare e uscire dal mondo del lavoro secondo le fluttuazioni capricciose del mercato. Invece bisognerebbe avere il coraggio di affrontare il problema in tutta la sua gravità: la disoccupazione non solo non diminuirà, ma è destinata a crescere. Basta guardarsi intorno: ieri le macchine sostituivano l'uomo alla catena di montaggio, domani software sempre più sofisticati lavoreranno al posto di medici, dirigenti e notai. Insomma, il progresso tecnologico ci procurerà sempre più beni e servizi senza impiegare lavoro umano. E la soluzione non è ostacolarne la marcia trionfale, ma trovare criteri radicalmente nuovi per ridistribuire in modo equo la ricchezza. Per questo i disoccupati e tutti coloro che temono di poterlo diventare, se vogliono salvarsi, devono adottare una precisa strategia di riscatto. Perché pretendere un comportamento e un'etica ritagliati sul lavoro quando il lavoro viene negato? Perché non trasformare i disoccupati in un'avanguardia di quel mondo libero dal lavoro e sperimentare le occasioni preziose offerte da quella libertà? Ciò che oggi si prospetta non è conquistare, lottando con le unghie e con i denti, un posto di ultima fila nel mercato del lavoro industriale, ma sedere nella cabina di regia della società postindustriale. La soluzione è un nuovo modello di sviluppo e di convivenza, che possa condurci verso approdi sempre meno infelici.
Immaginate di avere di fronte i due protagonisti di questo libro. Il primo è un giornalista anziano, Paolo. L'altro è una ragazza sui vent'anni, Carlotta, bella, sfrontata e ignorante. Che cosa credete stiano facendo? Se pensate all'inizio di un rapporto a luci rosse, vi sbagliate. In realtà Carlotta, figlia di un amico, ha accettato di assistere Paolo nella stesura delle proprie memorie. Ecco, avete tra le mani il diario del loro lavoro. Un racconto dell'Italia com'era qualche decennio fa e una previsione dell'Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi. Cambia in meglio? Per niente. Siamo un paese che ha perduto se stesso. Tanto da rendere inevitabile il titolo di questo libro: L'Italia non c'è più. Come eravamo, come siamo. Anzi, come saremo. Sull'Italia del passato non ho dubbi. Ci ho vissuto da bambino, quindi da studente e infine da cronista. Ho fatto in tempo a vedere in carne e ossa Benito Mussolini, ancora in sella. Poi la guerra e il terrore di morire sotto le bombe americane. Le notti nei rifugi antiaerei che offrivano uno spettacolo di sorprendente umanità, comprese un po' di ragazze senza vergogna e senza mutande. I giorni sanguinosi della Liberazione. Il miracolo del dopoguerra, quando il boom economico non era un sogno, ma un traguardo possibile. Infine tutte le altre puntate del film che qui troverete. Dove rivivono donne e uomini che avete intravisto soltanto da lontano. Eroi e avventurieri, vittime e carnefici, morti ammazzati e terroristi rivoluzionari, partiti politici decenti e altri avviati a diventare la casta di ladri arroganti che continua ad asfissiarci. La mia opinione è che un tempo l'Italia fosse migliore di questa del 2017. Oggi siamo un paese allo sbando.
Quando nel 1826 l'esploratore Alexander Gordon Laing arrivò a Timbuctù, primo europeo a mettervi piede, scopri che la capitale del Mali era da secoli il cuore intellettuale dell'Africa subsahariana, un luogo di straordinaria ricchezza culturale nel quale era fiorito un tesoro inestimabile di testi religiosi, di algebra, fisica, medicina, giurisprudenza, botanica, geografia, astronomia, persino di educazione sessuale. Testi preziosi anche perché vergati con varietà di stili calligrafici, di inchiostri e colori. È questo immenso patrimonio di manoscritti - recuperati rocambolescamente in tutta l'Africa da Abdel Kader Haidara, archivista e bibliotecario - che improvvisamente, nel 2012, si ritrova minacciato dall'avanzata della jihad. I fondamentalisti prendono Timbuctù, impongono la Sharia, distruggono le vestigia degli antichi templi e diventa chiaro che anche i manoscritti saranno dati alle fiamme. Per salvarli Abdel Kader recluta un manipolo di coraggiosi bibliofili e organizza un'incredibile operazione alla Monuments Men: oltre 350.000 manoscritti vengono nascosti in casse e bauli, portati al sicuro su carretti trainati da muli, contrabbandati oltre i posti di blocco. E quando a Timbuctù arrivano i militari francesi, nel gennaio 2013, la gran parte del tesoro è in salvo. "La biblioteca segreta di Timbuctù" è una storia vera, che si legge come un romanzo e che afferma il valore della cultura come unico baluardo possibile contro la barbarie del fondamentalismo.
Sergio Staino e Chicco Testa. Una «strana coppia» che, a ben vedere, ha molti punti in comune. «Innanzitutto entrambi - scrive Testa - facciamo parte di quelli che "Sono stato iscritto al Pei"». Ad accomunarli ce poi il tono irriverente e il non essere mai riusciti a emanciparsi dalla «passionacela» per la politica. In un gustoso confronto a colpi di matita e parole, mettono qui alla berlina tutti i limiti della diffusa cultura dei No, per mostrare come non aiutino affatto a crescere. A furia di «No Ogm», «No Triv», «No Riforme» e via negando, siamo infatti un paese bloccato nella palude dell'immobilismo e rischiamo di consegnarci agli attaccabrighe, ai demagoghi, ai dispensatori di post-verità. Per esorcizzare tutto questo, gli autori ci regalano un falò delle oscenità di cui ogni giorno siamo tutti vittime, spesso inconsapevoli. «Il libro nasce - scrive Sergio Staino - dal desiderio di confrontarmi con una personalità che sento al tempo stesso molto vicina e molto lontana da me. Abbiamo modi diversi di interpretare la realtà, anche formalmente - lui con l'elzeviro, io con la matita -, ma siamo uniti dall'ironia e dall'amore per il dubbio. Leggetelo quindi con divertimento, sapendo che a volte ho ragione io, altre volte lui e, probabilmente, qualche volta nessuno dei due».
Molto infastidiva Sciascia l'essere considerato un «mafiologo»: «Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone» diceva. Così come lo infastidiva quell'«intuizione di letterato» che, nel migliore dei casi, gli veniva attribuita allorché scagliava taglienti ed eretiche verità contro il «folclore tenebroso» in cui venivano di solito assunti i fatti di mafia. Tirare il collo alla retorica e alla mistificazione, questo gli premeva. E regolarmente i suoi articoli scatenavano furenti polemiche - se non l'accusa, infamante, di fare «il gioco della mafia». Sicché non gli restava che citare l'amato Savinio: «avverto gli imbecilli che le loro proteste cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza». Il fatto è - come dimostrano gli interventi qui radunati, fra cui quello sui 'professionisti dell'antimafia' - che Sciascia è lo scrittore italiano cui più che a ogni altro si attaglia l'aggettivo «scomodo»: che prenda posizione sulla morte di Calvi o sull'assassinio del generale Dalla Chiesa o sul caso Tortora o sul maxiprocesso di Palermo e sulle testimonianze di Buscetta e Contorno o, infine, sul rischio che l'antimafia si trasformi in strumento di potere, non potremo che riconoscere fino a che a punto sia rimasto fedele alla definizione che nel 1977 dava dell'intellettuale: «uno che esercita nella società civile ... la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l'intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa - principalmente e insopprimibilmente -dall'amore alla verità, gli consentono di svolgere».
Il design, l'architettura e l'arte fanno parte della nostra vita quotidiana: ne vediamo degli esempi negli oggetti che ci circondano, per le strade della città in cui abitiamo, nelle nostre passioni e abitudini. Quello che forse non abbiamo mai notato è come l'universo artistico sia profondamente legato a quello matematico: vi siete mai domandati, ad esempio, da quale posizione sia meglio osservare una statua? O perché abbiamo l'impressione che le ballerine di danza classica sconfiggano la forza di gravità? O ancora, vi siete mai chiesti che rumore fa il silenzio? Con la consueta abilità nell'analizzare la realtà che ci circonda nei suoi aspetti apparentemente più incomprensibili, il grande matematico John D. Barrow dimostra come numeri e arte non siano poi così distanti tra loro, e lo fa attraverso una serie di esempi divertenti, formule, aneddoti bizzarri e curiosità per guidarci alla scoperta dei legami tra queste discipline: un tour di cento tappe che ci introduce ai misteri delle più disparate forme d'arte, dalla scultura alla letteratura, dall'architettura alla danza, dalla pittura al design, spiegandoci come la matematica ne possa svelare le segrete dinamiche. Capiremo così perché i diamanti brillano, perché un soprano può spaccare un bicchiere di cristallo senza toccarlo e perché la cabina doccia è il posto in cui si canta meglio. Rivisitando il quotidiano con un'ottica inedita, questo saggio arricchisce la nostra comprensione sia degli oggetti matematici sia degli oggetti artistici.
«Il borghese... Non molto tempo fa, questo concetto sembrava indispensabile all'analisi sociale; oggi invece possono passare anni senza che se ne parli. Anche se il capitalismo è più potente che mai, la sua incarnazione sembra essere svanita nel nulla. "Io sono un membro della classe borghese, mi sento tale e sono stato educato alle sue idee e ai suoi ideali", scriveva Max Weber nel 1895. Chi potrebbe ripetere oggi quelle stesse parole? Le "idee" e gli "ideali" borghesi: ma che cosa sono?» Inizia così lo studio di Franco Moretti sulla presenza della borghesia nella moderna letteratura europea. Nel saggio, la galleria dei singoli ritratti si intreccia con l'analisi di specifiche parole chiave («utile» e «serio», «efficienza », «influenza», «comfort», la «roba»), con le mutazioni formali riscontrabili nella prosa di celebri opere romanzesche (da Defoe, Austen e Flaubert a Goethe, Verga e Pérez Galdós), e con alcuni riscontri paralleli nella coeva arte europea (da Vermeer a Manet). A partire dal «padrone lavoratore» del primo capitolo, passando attraverso l'etica espressa da alcuni romanzi ottocenteschi, l'egemonia conservatrice della Gran Bretagna vittoriana, le «malformazioni nazionali» delle culture periferiche, e chiudendosi con l'autocritica radicale messa in scena dai drammi di Ibsen, il volume traccia la mappa delle vicissitudini della cultura borghese, esplorando le cause della sua storica debolezza e della sua attuale irrilevanza.
In media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l'intrattenimento perpetuo un'abitudine. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un'anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta. Nei mesi trascorsi nell'Artide, al Polo Sud o in cima all'Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana. Ma che cos'è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è più importante che mai? Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatre sono le possibili risposte che offre. Trentatre riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un'unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere più a fondo la vita.
Cosa significa essere femminista oggi? Per prima cosa reclamare la propria importanza, di individuo e di donna insieme; reclamare il diritto all'uguaglianza senza se e senza ma. E cosa significa essere una madre femminista? Non smettere di essere una donna, una professionista, una persona, e condividere alla pari la responsabilità con il proprio compagno. Mostrare a una figlia le trappole tese da chi la vuole ingabbiare per mezzo della violenza, fisica o psicologica, in un ruolo predefinito, e spiegarle che quel ruolo non ha nessun valore reale e che potrà scegliere di essere ciò che vorrà. Farle capire che la sua dignità non dipende dallo sguardo e dal giudizio degli altri e che la sua realizzazione non dipenderà dal compiacere quello sguardo. E significa soprattutto insegnarle che l'amore è la cosa più importante, ma che bisogna anche capire quando è il caso di battersi contro l'ingiustizia. Adichie ha scritto un intenso pamphlet sotto forma di lettera, con uno sguardo confidenziale eppure politico. La sua voce, che sa essere intima e allo stesso tempo universale, ha saputo dare vita a un manifesto necessario in un presente in cui dobbiamo imparare a vivere la differenza per poterci ancora dire umani.
L'Italia è un enorme museo: nelle sue città, fra le sue colline, lungo le sue spettacolari coste sono nati - e in qualche caso sono tutt'ora conservati - alcuni dei più grandi capolavori artistici della nostra civiltà. Chi non conosce "L'ultima cena" di Leonardo Da Vinci, il "David" di Michelangelo e la "Primavera" di Botticelli? Ma sono tante le opere create in Italia che hanno vissuto destini travagliati: trasportate per il mondo, rubate in guerra, a volte restituite a volte no, spesso perdute. Non c'è da stupirsi che i più temuti personaggi della storia, da Napoleone fino a Hitler, abbiano preso di mira lo stivale d'Europa con i suoi tesori. Ma in loro difesa si sono battuti eroi sconosciuti che hanno rischiato la vita per riportare in patria parte del bottino, e di cui oggi Alessandro Magno ricostruisce le gesta.
Nei primi mesi del 2011, a cent'anni esatti dall'impresa coloniale italiana in Libia, si è consumato un nuovo intervento militare contro il Paese nordafricano. Artefici di quest'attacco piratesco, come è qui documentato con precisione, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, a cui presto si è dovuta accodare anche l'Italia, il più stretto e importante partner economico-commerciale della Libia. Ne è seguito un disastro immane le cui vere ragioni sono state tenute nascoste al pubblico internazionale. Con molta lentezza, mentre si consumava la tragedia che ha dilaniato l'ex colonia italiana, sono emersi qua e là taluni brandelli di notizie sulle cause che hanno portato all'entrata in guerra della NATO contro Mu'ammar Gheddafi. Ma, come già era avvenuto, i media mainstream hanno continuato a tacere sul disegno e le finalità complessive dell'operazione. Oltre a non reclamare giustizia per gli «uomini di Stato» responsabili di una tale catastrofe sociale e umanitaria. Il libro di Paolo Sensini rappresenta un contributo imprescindibile per chiunque voglia davvero capire cos'è accaduto in Libia e, più in generale, su ciò che è ormai passato alla storia con il roboante nome di «Primavera Araba». È un racconto avvincente, che ci guida per mano nel labirinto libico e di cui l'autore, che ha completato il quadro pubblicando importanti contributi sulla strategia del caos nel Vicino e Medio Oriente, ci aggiorna con dovizia fino agli ultimissimi eventi e oltre.