Eminente studioso del Rinascimento, Eugenio Garin non fu storico di carattere erudito o di vocazione strettamente filologica; al contrario interrogò i grandi autori rinascimentali muovendo da problemi teorici assai precisi. Il volume si propone di individuare differenti periodi nella produzione scientifica di Eugenio Garin portando soprattutto alla luce i saggi degli anni '30 e degli anni '40, sorprendenti per le connotazioni di carattere spiccatamente religioso da cui sono percorsi: tanto più sorprendenti se si pensa all'immagine di Garin quale autorevolissimo esponente della "cultura laica" del nostro paese impostasi negli anni '50 e durata, con poche variazioni, fino alla sua morte. L'opera consente di mettere a fuoco l'itinerario intellettuale di un personaggio come Garin; contribuisce a mostrare la complessità delle ricerche rinascimentali nella seconda metà del secolo scorso e getta luce su un capitolo essenziale della storia degli intellettuali italiani del XX secolo.
Il filo conduttore che lega i saggi raccolti in questo volume è l’analisi della diffusione del razzismo nell’Italia degli anni Trenta, ma anche dei vuoti di memoria dell’elaborazione italiana di questo momento decisivo della nostra storia, quando la cittadinanza è stata tolta ad una parte degli italiani e contro di loro si è attuata una persecuzione basata su criteri razziali e biologici. Le leggi del 1938 si inseriscono infatti in una cultura della razza che ha profonde radici nella cultura europea ed italiana, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti. Una cultura fondata sul razzismo biologico, sia pur mescolato a motivazioni «spirituali»: l’idea della supremazia della «razza bianca», l’ideologia coloniale, la misoginia, il darwinismo sociale, l’eugenetica. Una cultura che si fonda su un presupposto scientificamente falso, quello dell’esistenza delle razze.
A fronte di questo, la difficoltà ad avere memoria delle leggi del 1938 - emerse all’attenzione degli storici solo nel 1988, in occasione del loro cinquantesimo anniversario - ha fatto sì che la narrazione della legislazione razzista e della sua applicazione manchi tuttora quasi interamente nella riflessione degli storici dell’arte, delle scienze e della letteratura, ma soprattutto nella divulgazione e nella manualistica. Le radici di questo silenzio nascono dalla rimozione delle responsabilità, caratteristica dell’Italia del dopoguerra: una riflessione sui vuoti della nostra memoria e del nostro senso comune ci riporta oggi alla necessità di fare infine un bilancio dei danni provocati dal razzismo nella nostra cultura e nella nostra società.
Marina Beer insegna Letteratura italiana presso la Sapienza, Università di Roma.
Anna Foa insegna Storia moderna presso la Sapienza, Università di Roma.
Isabella Iannuzzi collabora con il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea della Sapienza, Università di Roma.
Un libro che riattraversa «con occhi di bambino» le tragiche vicende della persecuzione antiebraica.
La storia della persecuzione antiebraica attuata dal fascismo tra il 1938 e il 1945 ci è ormai ben nota, ma raramente ci si è soffermati a riflettere su cosa abbiano significato quei tragici sette anni per i bambini italiani. Per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra, e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva - peculiare, e tuttavia indispensabile per comprendere l'essenza di una persecuzione razziale, dunque fondata propriamente sulla nascita - la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. Il regime fascista iniziò ad attuare la discriminazione proprio dal mondo della scuola, e i bambini ebrei - prima espulsi, poi separati, esclusi ed infine internati - furono vittime tra le vittime. Una parte di essi fu poi deportata, gli altri dovettero fuggire e nascondersi per molti mesi. Bruno Maida ne ripercorre la storia attraverso i progressivi stadi della persecuzione, attento a cogliere non solo lo sguardo che l'infanzia ebbe di fronte al turbinio dei fatti, ma la portata politica di una ferita impossibile da sanare, se non, forse, in un profondo tentativo di comprensione. Sapientemente in bilico tra due registri - narrativo e storiografico - il libro si colloca in un filone d'indagine che vede crescere a livello internazionale l'interesse verso la storia dell'infanzia nel Novecento.
L'idea che l'Italia fascista abbia accolto come profughi persone perseguitate dal nazionalsocialismo appare in contraddizione con i punti in comune tra i due sistemi politici e i loro rapporti sempre più stretti in politica estera. Le cifre però parlano chiaro: quasi 18.000 persone, in prevalenza ebrei e di cui almeno 5.000 provenienti dall'Austria, trovarono rifugio in Italia fra il 1933 e il 1945. Per molti di loro il nostro paese fu solo un luogo di transito; altri però si fermarono e, nonostante il successivo internamento in campi o località isolate alle condizioni di soggiorno obbligato, riuscirono a sfuggire alla deportazione nei luoghi di sterminio nazisti e poterono contare sulla generosità e disponibilità della popolazione locale, documentate da molti racconti autobiografici di esuli. Il volume raccoglie i contributi di autori italiani, austriaci e tedeschi, oltre a numerose testimonianze e resoconti di profughi, che affrontano il tema, poco noto al grande pubblico italiano, della storia dell'esilio austriaco in Italia: ne esce un quadro storico e umano complesso, insieme rigoroso e commovente, indispensabile per meglio comprendere quel tragico periodo di oppressione.