«"Un crocifisso romanico non era in origine una scultura né la Madonna di Duccio un dipinto...", osservava André Malraux. Ci proponiamo di capire cosa fossero, prima di divenire "dipinti", i pannelli assemblati nei polittici dell'Europa meridionale, e più precisamente italiani, del Quattrocento e degli inizi del Cinquecento, cui può convenire il termine generico di "pala". Quel che ci attrae è la qualità essenziale della pittura, quel che ci affascina sono l'autorevolezza dei grandi stili, il prestigio dei grandi nomi. Un'interpretazione puramente formale non basta tuttavia a soddisfare le nostre attese. Ci si trova dinanzi a continui interrogativi: a cosa corrisponde la distribuzione dei pannelli? Cosa si cela dietro la rappresentazione? Cambiamenti spettacolari scandiscono la storia del Quattrocento, ma chi ne è l'artefice? A quali esigenze rispondono dunque tali e tante peculiarità? È a questi quesiti che cercheremo di rispondere. Sono la filigrana del nostro lavoro».
«Circa trent'anni fa, quando la critica volse nuovamente lo sguardo verso il Caravaggio, questi, salvo che di nome (un nome ancora tutto romanticamente avvolto nell'alone di tempesta delle sue vicende mortali), era uno dei pittori meno conosciuti di tutta l'arte italiana. Inevitabile, perciò, che la ricerca dovesse durar fatiche particolari solo a ritrovar la bussola di un primo orientamento. Per il Caravaggio infatti e per la sua cerchia immediata non si trattava solamente di riparare a un lungo sviamento del gusto; si trattava anche di ricostruire una storia e perciò una critica che, in 'extenso', non eran mai state scritte; e la ricostruzione veniva a proporre delle esigenze metodiche affatto particolari».
"Il fenomeno artistico, se dev'essere compreso veramente nella sua compiutezza e nella sua peculiarrtà, affaccia di necessità una duplice pretesa: da un lato di venir compreso nella sua condizionatezza, ossia di essere inserito nel nesso storico di causa ed effetto; dall'altro di essere compreso nella sua assolutezza, ossia di essere sottratto al nesso storico di causa ed effetto e di venir inteso, al di là della relatività storica, come una soluzione, estranea al tempo e al luogo, di un problema che è estraneo al tempo e al luogo. In ciò consiste la peculiare problematiea di qualsiasi indagine che rientri nelle scienze dello spirito, ma insieme la sua peculiare attrattiva: 'due debolezze' dice una volta Leonardo parlando degli archi in architettura 'insieme costituiscono una forza'".
"Questo libro è nato da una sorpresa, quella di scoprire un giorno, in un corridoio del convento di San Marco, a Firenze, due o tre cose sconcertanti dipinte nel Quattrocento. Esse non corrispondevano a quanto l'occhio di uno storico dell'arte può generalmente aspettarsi di vedere in un'opera eseguita in quel periodo; non assomigliavano in nulla a quanto si vede solitamente riprodotto nelle opere sull'arte del Rinascimento. Queste due o tre cose sconcertanti, ardue da descrivere, estremamente singolari nell'assoluto candore del convento, erano delle macchie, delle vaste macchie multicolori rispetto alle quali le nostre consuete categorie di "soggetto", di imitazione o di figura sembravano realmente dover naufragare. Sembravano infatti prive di qualsiasi soggetto, sembravano non imitare nulla di preciso, e infine tutto in loro sembrava stranamente, per quell'epoca, "non figurativo" [...] evocavano un dripping di Jackson Pollock". Da questa scoperta prende avvio l'affascinante indagine di Georges Didi-Huberman - uno dei più noti filosofi e critici d'arte contemporanei -, in cui la storia delle idee, gli strumenti dell'estetica, della semiologia e della psicoanalisi convergono per delineare un'interpretazione originale e approfondita di un artista mirabile le cui opere, come scrisse Vasari, sono "tanto belle, che paiono veramente di paradiso", e per questo è universalmente noto come Beato Angelico.
Il trattato su "Il Sublime", un piccolo gioiello della letteratura greca di età imperiale, contiene una delle più antiche, e senz'altro la più importante, fra le riflessioni classiche sulla natura della bellezza letteraria, rappresentata dalla parola hypsos, "vetta" o "apice", e metaforicamente "sublime". Il fine dell'opera è didattico e pratico: l'autore si propone infatti di insegnare "come noi possiamo elevare le nostre doti naturali" al punto da poter creare un'opera così elevata che innalzi alla propria vertiginosa altezza l'animo di un lettore o di un ascoltatore. I suoi precetti non sono meramente tecnici: li sostanziano infatti due attitudini naturali quali la magnanimità (che si apre ad una prospettiva metafisica) e la passione. Ma di più: come già osservò il primo traduttore francese dell'opera, Nicolas Boileau (1674) "en parlant du Sublime, il est lui-mesme tres-sublime". L'Antichità classica e il Medioevo non si mostrarono generosi verso questo testo, a noi giunto attraverso un unico manoscritto bizantino, per di più lacunoso. Fu solo la traduzione del Boileau, poco più di un secolo dopo la prima edizione a stampa dell'originale greco (F. Robortello, 1554), che diede il via alla fortuna de "Il Sublime" e al suo impatto sulle teorie estetiche dell'età moderna. Proprio l'importanza vieppiù riconosciuta a questo antico trattato dalle moderne teorizzazioni sul sublime rendeva necessarie una traduzione e una esegesi...
"È in Italia, nel Quattrocento, che risiede principalmente l'interesse della Rinascenza - in quel solenne Quattrocento, che non si studierà mai abbastanza non solo pei suoi resultati positivi nel campo dell'intelletto e della fantasia, le sue concrete opere d'arte, le sue tipiche figure eminenti, col loro profondo fascino estetico, ma pel suo spirito e pel suo carattere in genere, per le qualità etiche di cui esso offre un modello perfetto. Le varie forme d'attività intellettuale che insieme costituiscono la cultura di un'età, muovono per la maggior parte da punti di partenza differenti, e seguono cammini distinti. Come prodotti d'una medesima generazione esse invero partecipano d'un carattere comune, e inconsciamente s'illustrano a vicenda; ma quanto agli artefici stessi, ogni lor gruppo è solitario, e consegue quei vantaggi o subisce quegli svantaggi che possono esserci nell'isolamento intellettuale. Il Quattrocento in Italia è una di queste epoche felici, e quel che talora si dice dell'età di Pericle è vero per quella di Lorenzo il Magnifico: è un'epoca fertile di personalità, multilaterale, accentrata, completa. Qui artisti e filosofi e coloro che l'azione del mondo ha elevato e reso acuti, non vivono nell'isolamento, ma respirano un'aria comune, e ricevono luce e calore gli uni dai pensieri degli altri. L'unità di questo spirito conferisce unità a tutti i vari prodotti della Rinascenza".
"Gli scritti critici di Robert Schumann costituiscono una testimonianza della vita musicale romantica d'insostituibile valore. In essi è la rivelazione di Chopin, presentita con indescrivibile acume sin da un'opera della più acerba giovinezza; di Berlioz, imposto all'attenzione del pubblico europeo con una memorabile analisi della Sinfonia fantastica; di Brahms, annunciato solennemente come l'iniziatore di nuove vie in un ultimo scritto che è al tempo stesso una sorta di testamento spirituale e la consacrazione di una novella forza creatrice. [...] Come sempre avviene quando si tratta di uno scrittore ben vivo e originale, la critica schumanniana ha un timbro inconfondibile e tanto più raro in quanto dal musicista si è soliti attendere disquisizioni tecniche aride e secche, mentre in essa il tono poetico supera di gran lunga quello minuziosamente esegetico, delizia del mediocre e del pedante. [...] L'acutezza del giudizio si accompagna non soltanto alla raffinatezza del gusto, ma a un'assoluta probità morale che è veramente da pregiare quando si mostra così costante in tutte le manifestazioni di una lunga, quotidiana attività inevitabilmente esposta, per sua natura, a tentazioni non buone." (Dallo scritto di Luigi Ronga)
"Il film parlato si sforza oggi di combinare scene visivamente mediocri ricche di dialogo con lo stile tradizionale e completamente diverso di una ricca azione muta. Rispetto all'epoca del muto si nota un'impressionante decadenza del livello artistico, sia nei film di media qualità che nelle opere di eccezione, e una tale tendenza non può essere totalmente attribuita alla sempre crescente industrializzazione. Può apparire sorprendente che si crei oggi un tale numero di opere fondate su un principio che rappresenta, se confrontato con le pure forme disponibili, un così radicale impoverimento artistico. Ma come meravigliarci di una tale contraddizione in un'epoca come la nostra in cui, anche sotto tanti altri aspetti, si vive una vita irreale senza riuscire a raggiungere la vera natura dell'uomo e delle manifestazioni che gli competono. Se nel cinema accadesse il contrario non sarebbe forse un'incoerenza magari felice, ma ancor più sorprendente? Possiamo tuttavia consolarci pensando che le forme ibride sono assolutamente instabili. Tendono a trasformarsi, passando dalla propria irrealtà a forme più pure, anche se questo significa tornare al passato. Al di là dei nostri tentativi e dei nostri errori esistono forze interiori che, alla lunga, permettono di superare cadute e deficienze, dirigendo l'operare umano verso la purezza del buono e del vero." Con uno scritto di Guido Aristarco.
"Nella storia della pittura il nome di Manet ha un significato a parte. Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l'hanno preceduto, aprì il periodo in cui stiamo vivendo, armonizzandosi con il mondo attuale, il nostro, e in dissonanza con il mondo in cui visse, che scandalizzò. La pittura di Manet operò un subitaneo cambiamento, un sovvertimento corrosivo a cui converrebbe il nome di rivoluzione, se non desse luogo a un equivoco: il cambiamento visibile dello spirito di cui questa pittura è il segno differisce almeno per l'essenziale da quelli che la storia politica registra. Tale cambiamento ha peraltro un aspetto duplice. Da un lato, una tela di Manet rompeva di per se stessa con quell'idea della pittura che era allora radicata negli spiriti. Non meno sorprendente è l'altro aspetto del cambiamento a cui la pittura di Manet risponde. Mai prima di lui era stato così radicale il divorzio tra il gusto del pubblico e la mutevole bellezza che l'arte rinnova attraverso il tempo. Manet apre la serie nera; è a partire da lui che la collera e il dileggio del pubblico hanno così apertamente designato il rinnovarsi della bellezza. L'unità relativa del gusto dell'età classica era in quel momento compromessa: il romanticismo l'aveva spezzata, suscitando reazioni irose. Delacroix, Courbet, e lo stesso Ingres, così profondamente classico, avevano suscitato ilarità. Ma l'Olympia è il primo capolavoro di cui la folla abbia riso di un immenso riso."
"Non ci fu cosa o soggetto che non ebbe posto nell'immensità dell'arte di Hokusai, pari all'immensità dell'universo. Si può dire che l'artista fu inebriato dallo spettacolo della vita e dalla molteplicità delle forme e che, neppure nei periodi di intenso naturalismo, l'arte giapponese aveva conosciuto qualcosa di simile. [...] Gli uomini e gli animali, gli umili testimoni dell'esistenza quotidiana, la leggenda e la storia, le solennità mondane e i mestieri, tutti i paesaggi, il mare, la montagna, la foresta, il temporale, le tiepide piogge delle primavere solitarie, l'alacre vento agli angoli delle strade, la tramontana sull'aperta campagna, tutto questo più il mondo dei sogni e il mondo dei mostri costituisce il regno di Hokusai, se alla parola è dato di segnarne i limiti. [...] Vita e movimento, studiati nella fatica o nella gioia degli uomini, come nel brulichio del mondo animale, nel brusco scatto che fa saltare l'insetto, in un nervoso colpo di pinna, ecco il grande principio che governa la curiosità dell'artista e la tiene desta ovunque una forma organica si muove, si agita, si dimena e si contorce. La cultura di una sensibilità delicata, la meditazione dei grandi esempi ereditati dal passato, la ricerca di uno stile che risiede nella ponderazione o nell'immobilità non potevano soddisfare l'artista. Hokusai ha voluto che la sua arte fosse pari, non alla creazione di uno splendido sogno solitario, ma pari al fremito e all'energia delle forme viventi."