In Arpagone, Il protagonista della commedia, l'avarizia ha soffocato ogni sentimento e offuscato ogni residuo barlume di coscienza. Sordido, autoritario, egoista, egli progetta di sistemare i suoi due figli, Elisa e Cleante, secondo il proprio tornaconto, senza alcun rispetto per la loro volontà e i loro affetti. Il denaro è il suo demone, il suo assoluto, la passione che io devasta. Dietro la figura tradizionale dell'avaro, che molto deve a Plauto, Molière lascia intravedere un personaggio del XVII secolo, un ricco borghese parigino con l'anima del finanziere e dell'affarista che sarà propria dei suoi epigoni balzachiani, da Grandet a Mercadet. Molière non è un censore dei vizi né un pedante apologeta della moderazione: si limita a ritrarre gli uomini come sono, a disegnare campioni di dissennatezza, monomaniaci in bilico tra commedia e tragedia che suscitano il riso ma anche amare riflessioni sulla natura umana.
Qual è l'oggetto della satira di questa commedia? I medici o il malato? L'uno e gli altri. La mania del malato coincide con quella dei medici, è esattamente la stessa; Argante e i suoi terapeuti sono soltanto il tramite di una dolorosa realtà che li trascende: l'illusione umana. Ultima opera di Molière, "II malato immaginario" mette in scena non più i "caratteri", ma tutto l'uomo nel suo momento più tragico, quando è vittima dei propri miti. È il testamento che Molière lascia morendo; lo lascia da par suo, con gli intrighi di sempre, naufragato e nascosto nella beffa e nel riso, nel gioco di prestigio tra finzione e realtà, o meglio tra finzione e finzione della finzione, che è l'amara filosofia di tutto il suo teatro.