Se è vero che per rendere giustizia occorre parlare, argomentare, provare, testimoniare, ascoltare e decidere, è anche vero che, a tal fine, è necessario anzitutto trovarsi nella condizione di giudicare. Tale è la funzione del rituale giudiziario: delimitare uno spazio tangibile che ponga un argine all'indignazione morale e alle passioni pubbliche, assicurare al dibattimento il giusto tempo, fissare le regole del gioco, convenire su un obiettivo e istituire gli attori. Ma le forze oscure del rituale, invece di servire la giustizia, trascinano talvolta verso l'ingiustizia. Accade, allora, che la scenografia processuale si ribelli alle intenzioni virtuose del regista, offrendo lo spettacolo di una commedia gravida di dissonanze; l'accusato rischia di essere travolto da quello stesso cerimoniale concepito per metterlo al riparo dalla vendetta popolare e il rito si trasforma in un'esecuzione capitale simbolica, allorché la passione pubblica si fa dirompente e il temperamento del giudice troppo debole. Volere il bene e fare il male: tale è, nella sua essenza, l'esperienza tragica della giustizia con cui Antoine Garapon intesse un dialogo serrato, esplorando i diversi aspetti del rituale giudiziario.