Secondo la Torà una donna sposata può avere rapporti esclusivamente con il marito. L'unione con un altro uomo è adulterio, che, se dimostrato con testimonianze, comporta una condanna capitale per la donna e l'adultero. Se c'è ammissione di colpa, ma mancano le testimonianze, il vincolo matrimoniale deve essere reciso e la donna perde i diritti della ketubbà. Ma cosa succede quando c'è un sospetto e la donna nega? Di questo tema si occupa un lungo brano del Libro dei Numeri (5:11-31), nel quale si parla di un marito che sospetta che la moglie l'abbia tradito. In assenza di prove certe, si attiva una procedura particolare: la donna viene condotta al Santuario, dove viene sottoposta alla prova delle "acque amare"; deve bere dell'acqua nella quale è stato sciolto l'inchiostro di una pergamena in cui era stata scritta una parte di quel capitolo della Torà. Se la donna è colpevole, quell'acqua ne causerà la morte; se è innocente, uscirà incolume dalla prova e avrà dei figli. Questo trattato talmudico è essenzialmente dedicato al commento e alla definizione dei particolari di questa procedura. La parola sotà, che dà il nome al trattato, si riferisce alla donna, ma non è un vocabolo biblico. In italiano sotà potrebbe essere tradotto con "deviante", "infedele"; qualcuno, nell'ottocento, ispirato dalla lirica verdiana, ha suggerito "traviata". Nella Torà questa procedura rappresenta un caso unico, in cui l'aspetto "miracoloso" è decisivo. Nessuno può sapere se la donna è effettivamente colpevole; l'effetto della pozione è ambiguo, o toglie la vita o crea le condizioni per un'altra vita; inoltre, se arriva la punizione, questa colpisce automaticamente anche l'adultero, ovunque si trovi. La situazione configurata nella Torà rispecchia una società basata sul dominio maschile, che difende l'esclusività del potere del marito sulla moglie, che punisce gravemente l'adulterio e che premia la fedeltà femminile con una promessa di fecondità. Lo scopo della procedura, che espone pesantemente la donna, oltre all'accertamento della verità è quello di "mettere pace tra marito e moglie". In questi termini è evidente che la procedura corrisponde a una determinata organizzazione sociale con le sue regole e le sue mentalità. Molte di queste mentalità sono cambiate nell'evoluzione di millenni, anche se nell'ebraismo non è cambiata la difesa della fedeltà coniugale e il divieto di adulterio; ma già ai tempi in cui fu redatto il trattato della Mishnà, la procedura prescritta dalla Torà era considerata obsoleta e inapplicabile; non solo per l'ovvio motivo che non c'era più il Santuario, ma per il cambio dei costumi, già prima della distruzione del Santuario: l'infedeltà maschile dilagava. I Maestri infatti spiegarono, interpretando il testo, che la procedura non potesse funzionare se a sua volta il marito fosse stato infedele alla moglie, con una donna sposata a un altro uomo o anche solo con una donna libera. Non più quindi un rapporto di dominanza ma di reciprocità. Ma il sistema era ancora poligamico, per cui l'uomo sposato poteva avere rapporti con un'altra donna, purché anche lei sposata da lui. Solo verso l'anno mille la poligamia venne proibita portando a compimento giuridico l'evoluzione delle sensibilità. Malgrado l'antichità della norma e la sua inapplicabilità, l'argomento venne sottoposto alla discussione rabbinica, come accadde per molte altre norme non più applicabili. Compito dei rabbini fu la definizione precisa delle modalità: quali sono le condizioni per avviarla (limitando con questo gli effetti di attacchi di gelosia), quante testimonianze servano, come si svolge in tutti i dettagli la procedura nel Santuario, come si scatena la punizione; in quali tipi di vincoli matrimoniali si può attivare la procedura.
Il tema di questo trattato è la festa di Sukkòt. Questa festa, delle "capanne" o dei "tabernacoli", come veniva chiamata anticamente in italiano, è la terza, dopo Pèsach e Shavu'òt, delle tre feste di pellegrinaggio prescritte dalla Torà. È una festa che dura sette giorni, iniziando il 15 del mese di tishrì, cinque giorni dopo il giorno di Kippùr, con una appendice di un ottavo giorno finale di festa, Sheminì 'Atzèret. Nella sua istituzione biblica questa festa si caratterizza per due regole principali. La prima è quella della sukkà, la capanna: Nelle capanne (sukkòt) risiederete per sette giorni, ogni cittadino in Israele risiederà nelle capanne. Affinché le vostre generazioni sappiano che ho fatto dimorare i figli d'Israele nelle capanne quando li feci uscire dalla Terra d'Egitto (Lev. 23:42). La regola della capanna consiste nell'obbligo di trasferirsi nei giorni della festa dalla propria abitazione in una abitazione temporanea, il cui elemento distintivo è un tetto, che deve essere di materiale vegetale staccato dal terreno dove è cresciuto, che non sia stato ancora trasformato in un kelì, ossia in un recipiente o oggetto lavorato. Il motivo di questa regola è specificato nella Torà, e è quello di ricordare che quando gli ebrei uscirono dall'Egitto dimorarono in capanne, abitazioni precarie, e vi rimasero per i quaranta anni di peregrinazioni nel deserto prima dell'ingresso nella Terra promessa. L'altra regola, quella degli arba'à minìm, le quattro specie, è semplicemente prescritta ma non motivata: E prenderete per voi nel primo giorno il frutto dell'albero di bell'aspetto, rami di palma, ramo dell'albero dal fogliame fitto e salici di fiume, e gioirete davanti al Signore vostro Dio per sette giorni (Lev. 23:40). La regola consiste nel prendere quattro specie vegetali, che la tradizione specificherà essere un cedro, un ramo di palma, due di salice e tre di mirto, e agitarle nelle giornate festive. Un'ampia tradizione successiva ha cercato di interpretare il senso di questa regola, che certamente si basa sul rapporto con il mondo vegetale e rappresenta l'unione di realtà differenti (che nelle varie interpretazioni simboliche possono essere le parti anatomiche di un essere umano, o le componenti di una comunità, o gli aspetti delle manifestazioni della realtà divina). La festa di Sukkòt si colloca in un momento particolare dell'anno, anticipando l'arrivo della attesa stagione delle piogge, e chiude il ciclo agricolo annuale; nel suo simbolismo comprende un legame con la terra e l'agricoltura, e un richiamo storico generico al periodo della permanenza nel deserto. Quindi, per molti aspetti, sottolineati proprio dal simbolo della capanna, è il momento in cui si riflette sulla debolezza e sulla precarietà dell'esistenza. Su questi temi, il trattato presenta numerose storie e leggende, suggestive e pregne di significato.
Chaghigà significa letteralmente "festività", "festeggiamento". La Torà (Es. 23,16-17 e Deut. 16,16-17) prescrive che, in tre occasioni all'anno (Pèsach, Shavu'òt e Sukkòt), tutto il popolo debba recarsi in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme. La Torà regolamenta con precisione i sacrifici pubblici da compiersi in queste occasioni. Aggiunge anche che il pellegrino, singolarmente, non doveva presentarsi a mani vuote, ma doveva portare delle offerte; non dice però chiaramente quali fossero queste offerte. Il primo argomento affrontato in questo trattato è appunto la definizione dei tipi di offerte da portare, essenzialmente dei sacrifici. Nel primo capitolo del trattato si discute sulla natura di questi sacrifici, sull'estensione del loro obbligo alle varie categorie di persone e sul tempo in cui essi dovevano essere offerti; su come regolarsi in base alle proprie condizioni economiche e al numero dei commensali; sui tempi in cui i vari sacrifici dovevano essere presentati nel corso della festa. Alla fine, si svolgono importanti considerazioni sui rapporti tra le regole consolidate e le loro fonti bibliche, che in alcuni casi possono essere molto limitate. I vari argomenti trattati, essenzialmente giuridici, offrono l'occasione a ampie e notevoli divagazioni aggadiche, racconti e aneddoti. La particolarità che rende famoso questo trattato è però nel secondo capitolo, in cui, prendendo spunto da argomenti delicati che è bene siano insegnati a un pubblico selezionato, si apre una parentesi fondamentale che raccoglie una serie di insegnamenti sulla mistica ebraica e rappresenta uno dei nuclei più antichi a nostra disposizione su questo argomento. Proprio in ossequio al principio che certi argomenti debbano essere trattati con discrezione, gli insegnamenti sono solo in apparenza comprensibili ed è molto più ciò che si nasconde di ciò che viene rivelato. Vi sono comunque delle storie affascinanti come quelle che riguardano i destini drammatici dei Maestri entrati nel Pardès (il "giardino" della mistica), da rabbì Aqivà uscito indenne, a Elishà ben Avuyà, detto Achèr, "l'Altro". Si passa quindi all'introduzione di un problema che occuperà tutto il terzo capitolo. La presentazione al Tempio e il consumo della carne sacrificale richiedeva l'attenta osservanza delle regole di purità. Nell'ambito delle famiglie rabbiniche e di un pubblico ristretto a esse collegate si era consolidata una tradizione di rigorosa osservanza delle regole di purità, da applicare anche nell'alimentazione profana. Coloro che seguivano queste regole (tra di loro si chiamavano chaverìm, "colleghi") dovevano necessariamente staccarsi dal popolo che, benché non disattento, non era puntigliosamente scrupoloso rispetto a tutti i dettagli e non dava totali garanzie di affidabilità. Durante i pellegrinaggi, quando tutto il popolo si riuniva insieme e circolavano merci e recipienti, questi problemi diventavano comuni e urgenti. Di tutto questo si occupa l'ultimo capitolo, con un esame attento di alcune regole speciali di purità e con una casistica su oggetti e beni. In sostanza, il trattato Chaghigà, malgrado le sue ridotte dimensioni, è molto vario per gli argomenti trattati e per diversi livelli di difficoltà. Piuttosto difficile sia per la materia trattata che per la finezza delle discussioni nell'ultimo capitolo, eminentemente giuridico; seducente per le divagazioni aggadiche del primo capitolo e per la materia mistica del secondo; comunque importante e solo apparentemente semplice nelle parti giuridiche del primo e secondo capitolo. Una ricchezza variegata distribuita in, relativamente, poche pagine.