Il peccato originale in Anselmo e Tommaso è stato un nodo teologico architettonico e strategico. Per entrambi è stato retroilluminato dall'analisi cristologica, diventando così un vero nexus mysteriorum, capace di illuminare, fecondare e interconnettere alcuni misteri di fede: vita intra ed extra trinitaria, rapporto anima-corpo, incarnazione, staurologia, soteriologia, mariologia, escatologia. L'inedito confronto sul rapporto tra cristologia e antropologia ha evidenziato come nei due Dottori della Chiesa la colpa antica sia stata compresa come felix culpa, nell'orizzonte euristico e megalogico della sovrabbondanza di grazia, offerta per noi dal Cristo incarnato, crocifisso e risorto.
Che cosa vuol dire credere? Cosa accade quando l'uomo compie un atto di fede? Esso ha sì come motivo ultimo e fondante la Rivelazione, ma, in quanto atto umano, si esprime attraverso il soggetto esistenziale, attraverso la sua storia, i suoi affetti, la sua memoria, la sua libertà e razionalità, la sua apertura radicale al Mistero. Come può, allora, ciò che è infinito trovarsi nell'esperienza limitata della contingenza? Questa domanda nasce nella modernità, nel momento in cui la ragione, sancendo progressivamente la sua autonomia dalla conoscenza metafisica nelle forme della tradizione Scolastica, non riconosce più nella Trascendenza l'unica fonte del sapere e dell'esperienza. Mentre le soluzioni a tale problema sono andate nella direzione di una conciliazione a posteriori dell'aspetto razionale con quello trascendente dell'atto di fede, il nostro autore propone una nuova prospettiva. Individuando nell'interpretazione rahneriana della "consolazione senza causa precedente" (cioè di quella mozione interiore di cui si tratta nelle Regole degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Loyola) la stessa struttura trascendentale dell'atto di fede, lo ricomprende come autoattuazione del soggetto credente nel suo rapporto sintetico-originario con l'oggetto categoriale del credere. Così la tensione-frattura tra aspetto contingente e trascendente della fede viene risolta nel dinamismo della "percezione eccedente" dello spirito umano.
Il discernimento è riproposto nell’attuale cammino ecclesiale come dinamica necessaria dell’esistenza credente e metodo nella prassi pastorale. Si pensi alle Assemblee sinodali sulla famiglia e sui giovani; al Magistero di papa Francesco. Tuttavia, sebbene già dal Vaticano II sia auspicato un ritorno all’esercizio della coscienza personale ed ecclesiale, permangono riserve circa l’autonomia morale, quale costitutivo dell’agire etico. Di conseguenza appare il pericolo di una fallacia: in linea teorica si riconosce la possibilità razionale dell’uomo, ma sotto il profilo morale ci si limita a valutare la correttezza di un’azione dalla giustezza del procedimento e dalla conformità alle norme. Riflettere sull’agire intenzionale, dunque, colloca la riflessione sugli atti umani tra l’ordine morale, la serietà del capire/decidere in coscienza e il ruolo di Dio in questo impegno di responsabilità. È chiamata in causa l’identità stessa del discernimento, che rischia di ridursi a espediente sofistico per dilazionare situazioni complesse o per differire decisioni spigolose. Discernere è attraversare la decisione per giungere alla scelta; si tratta di un presupposto e non di un correlato. Nel testo si analizzano diverse prospettive argomentative con il supporto di J. M. Aubert ed E. Chiavacci e di altri teologi post-conciliari. L’enciclica Veritatis splendor afferma che «la legge di Dio non attenua né tanto meno elimina la libertà dell’uomo, al contrario la garantisce e la promuove» (n. 35), la vera autonomia è dono creazionale ed effetto della redenzione. L’uomo, pertanto, è creato capace di partecipare alla sapienza divina e in questa relazione, razionale e storica, è abilitata la sua creatività nel mondo.
«Il tempo è fuori dai cardini», scriveva Shakespeare, quasi avvertendo nel suo stadio di incubazione quella che è stata definita una «patologia temporale» dell'uomo contemporaneo, incapace tanto di progettare il futuro quanto di rielaborare il passato. Si è prodotta una «forbice temporale», ovvero uno iato strutturale fra il tempo della vita e il tempo del mondo, con i suoi correlati della noia e/o dell'angoscia... All'origine vi è una sorta di presente eternizzato, cioè una pura presenzialità che si sottrae alla decisione. Questa sindrome investe il senso della durata, cioè la coscienza del tempo vissuto. Il significato si dà sempre nel presente, come un «parto maschio del tempo» (Bacon) che supera il passato da cui trae origine per orientarsi all'avvenire. Allora, la percezione dell'ostilità del tempo, minacciato di sterilità, dev'essere saggiata nel crogiolo della «fedeltà allo spirito» (Alquié): l'essenza del tempo risiede nella sua tessitura drammatica, essendo eminentemente una relazione... L'autrice tenta una disamina della sintassi filosofica del tempo: punto di fuga è la provocazione lanciata da O. Cullmann negli anni 60, secondo cui il pensiero occidentale e il regime temporale cristiano sarebbero inconciliabili...
Come leggere il racconto della passione nel vangelo di Marco (Mc 14,1-16,8)? Perche? il racconto della Passione e morte di Gesu? nel secondo vangelo si differenzia nettamente dal resto della narrazione? È opera dell'evangelista Marco o si puo? ipotizzare una fonte pre-marciana a cui l'evangelista avrebbe attinto? Cosa dire dei personaggi, di Gesu? e dei discepoli, come si muovono nella trama del racconto?
Questi sono alcuni degli interrogativi che Emilio Salvatore affronta nello studio sincronico e diacronico del racconto della passione nel vangelo di Marco (Mc 14,1-16). Dopo averne indagato le principali chiavi interpretative offerte dall'esegesi contemporanea, l'Autore ne offre una ricostruzione dal punto di vista della tradizione, dando consistenza all'ipotesi di una fonte pre-marciana e mostrandone i trend di sviluppo secondo vari stadi collocabili in diversi contesti di rielaborazione.
Decisiva e? la lettura del testo nell'attuale configurazione narrativa, che ne individua la duplice trama di risoluzione/rivelazione intorno alla quale i personaggi si dispongono in un sistema chiaramente intellegibile secondo due assi tematici: quello del riconoscimento e quello della corresponsabilita? circa la morte di Gesu? di Nazaret. Il narratore, attraverso molteplici segnali, spinge il lettore ad esercitare una corretta epistemologia, in modo tale che, costituito spettatore, questi possa essere in grado di riconoscere in Gesu? l'identita? messianica; il lettore deve riconoscere la fedelta? di Dio, nella risurrezione del Figlio e verificare/trasformare la sua fedeltà discepolare. L'analisi si conclude individuando le istanze teologiche del racconto (alla luce dell'influsso paolino e petrino), che ne permettono la collocazione nella traiettoria tra kerygma e vangelo e la valorizzazione in quanto gia? effettivo ???????????, ossia vangelo del Nazareno, crocifisso e risorto.
Il presente studio di carattere ecclesiologico-sistematico vuole elaborare linee che, partendo dall’idea dell’Eucaristia come «cuore» della realtà ecclesiale, conducano e approdino, grazie all’approfondimento e all’ermeneutica dei dati conciliari, a un possibile modello “eucaristico” di Chiesa. Si inquadra l’ecclesiologia eucaristica, che rappresenta uno dei possibili approcci allo studio della realtà ecclesiale – approccio non esclusivo né escludente – all’interno dell’ecclesiologia di comunione così come è andata a delinearsi a partire dal Sinodo dei Vescovi del 1985, perché è il modello spesso indicato come proprio del Vaticano II. Punto di partenza è lo studio di quel legame indissolubile ed osmotico che intercorre tra Eucaristia e Chiesa e che trova espressione nel noto adagio: «la Chiesa fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la Chiesa». L’Autore guarda alla liturgia nel suo tratto costitutivamente ecclesiogenetico e, dopo aver osservato la “natura” eucaristica della Chiesa, nell’orizzonte della sacramentalità, inizia a pensare “eucaristicamente” anche le sue strutture. Il modello eucaristico di Chiesa riconosce la centralità e l’importanza del sinodo nel suo legame interiore con la sinassi eucaristica. L’Eucaristia, evento sinodale per eccellenza, si rivela essere il modello più adeguato della figura sinodale di Chiesa.
Gesù di Nazareth è l’avvenimento-verità della storia e la sua può essere definita come una storicità assoluta o singolare. Questa determina, secondo Giovanni Moioli, la storicità paradossale del cristiano. Infatti l’esperienza che il cristiano vive nella storia è determinata dal riferimento ineludibile a un evento passato, di cui egli è costituito “memoria” nello Spirito. Tuttavia proprio la normatività e la definitività dell’evento Cristo conferiscono al cristiano anche il senso della relatività di questa storia e dischiudono davanti a lui l’orizzonte di un futuro che rappresenta il compimento delle promesse di Dio. Ciò fa del senso dell’escatologia un elemento discriminante dell’esperienza cristiana. Viene così a delinearsi la posizione paradossale del cristiano dentro la storia: egli guarda a Gesù di Nazareth come alla verità normativa della propria esperienza e di questi viene costituito “memoria” nell’oggi storico; allo stesso tempo egli vive nell’attesa di un futuro che non è sinonimo di ignoto ma ha i contorni del Dio di Gesù. Proprio per questo il cristiano è, contemporaneamente, “memoria” e “speranza”. Il percorso all’interno della «meditazione teologica» del Moioli si snoda, in questo volume, attorno a tre assi portanti: l’individuazione del nucleo incandescente del pensiero del teologo milanese nell’idea decisiva della “singolarità” di Gesù; l’instaurazione di un dialogo, attorno a questo nucleo, tra le due forme principali della teologia unitaria di Moioli, la teologia sistematica – in particolare la cristologia e l’escatologia – e la teologia spirituale; la messa a tema di un dato sensibile che accomuna le due forme della teologia moioliana e che fa emergere tutta la singolarità cristiana, ossia lo statuto storico della fede.
Nel corso della sua attività di studioso, il filosofo e teologo canadese Bernard Lonergan (1904-1984) maturo progressivamente la convinzione che la teologia dovesse abbandonare la Denkform scolastica per fare i conti con la ricerca storico-critica e con la sua interpretazione delle fonti cristiane. Nel suo sforzo di armonizzare tutti gli elementi dell'eredità cristiana, sosteneva infatti Lonergan, la teologia del passato non aveva compreso che la molteplicità dell'eredità cristiana non costituiva un problema logico o metafisico, bensì storico. A ciò egli intese rispondere con Method in Theology (1972), opera in cui portò a compimento il progetto intrapreso con Insight (1953): stabilire un metodo trascendentale in grado di fondare i singoli metodi usati nei vari campi del sapere. Lonergan articolò questo metodo in alcune specializzazioni funzionali, tra cui la History che aveva la finalità di stabilire - facendo leva sul giudizio razionale - come si erano realmente svolti gli avvenimenti del passato. Dallo studio delle caratteristiche e degli obiettivi che Lonergan ascrive all'interpretazione e alla storia (il controllo del significato, la posizione subordinata dell'interpretazione, il carattere estatico dell'intelligenza storica, la centralità del giudizio), si evince però che il suo vero interesse non è consistito tanto nella considerazione della storia concreta quanto nell'elaborazione di una teoria della storiografia da collocarsi entro un quadro metodologico più ampio.
Perché tanti racconti nella Bibbia? Come mai la modalità narrativa sembra la via privilegiata della rivelazione ebraico-cristiana per dire Dio e per lo stesso comunicarsi di Dio agli uomini? La Bibbia testimonia una narratività di Dio che si manifesta tanto negli eventi di Israele quanto nelle vicende del suo Messia e di ciò che da lui si è originato. Si Deus, tunc narrabilis: il mondo biblico è consapevole dell'importanza del racconto, in tutte le sue varie e ricche articolazioni, per condurre l'uomo dentro il mistero di Dio e del Suo regno. Il "ritorno alla narrazione" e la riscoperta della sua preziosità pedagogica e mistagogica si sono manifestati in modi e ambiti diversi negli ultimi cinquant'anni, con notevoli ricadute sugli studi biblici e sulle metodologie esegetiche. A tale riscoperta è dedicato il presente volume, che raccoglie i contributi del Convegno "Il racconto biblico. Narrazione, storia, teologia" organizzato dal Settore Biblico della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale (sez. San Luigi) in memoria del compianto prof. Antonio Fanuli C.M. La sfida intrapresa dai contributi raccolti - a firma non solo di biblisti esperti di analisi narrativa ma anche di studiosi di teologia e cristologia provenienti da diversi atenei italiani è stata duplice: da un lato tracciare un primo bilancio dell'apporto dell'analisi narrativa agli studi biblici e alla riflessione teologica negli ultimi decenni.