Anna nasce nel 1501 nel castello di famiglia di Hever, nella verde campagna del Kent, e qui trascorre l'infanzia con la sorella Mary - che diventerà l'amante di Enrico VIII e gli darà un figlio - e il diletto fratello George. A Hever la fanciulla riceve l'educazione convenzionale per una gentildonna del suo ceto: grammatica, storia, musica, danza, ricamo, galateo, tiro con l'arco, falconeria. Cresciuta, Anna diventa la dama di compagnia di Caterina, la moglie del re, la «buona» regina. Ma quando, nella primavera del 1526, il cardinale Wolsey la presenta al sovrano, Enrico è fulminato dalla sua bellezza insolita, dallo sguardo fiero e malizioso. Da quel momento è un susseguirsi di avvenimenti che cambieranno la storia d'Inghilterra: Enrico è ossessionato da quella giovane donna, ma lei rifiuta le sue avances. Il re scalpita, non dorme più. Gli è chiaro: se la vuole, dovrà sposarla. Ma prima dovrà liberarsi della moglie, ricorrere a Roma, ottenere un annullamento. Nel giugno 1533, Anne è incoronata regina. Ma il suo regno avrà vita breve, giacché Enrico impiegherà meno di tre anni a stufarsi di lei e a cercare un modo per sbarazzarsi della sua ingombrante presenza...
Attraverso alcune biografie esemplari, Domenico Quirico narra in queste pagine le avventure dei generali che, nel secolo che va dalle guerre d'Indipendenza al secondo conflitto mondiale, hanno contribuito a fare e disfare l'Italia. Con le loro divise ornate di greche e nastrini capeggiavano guerre diversissime dai conflitti moderni: campagne, come quelle del Risorgimento e dell'Italietta coloniale, dove «c'erano fronti, ritirate, medaglie, regole», le vie erano tracciate dal passo dei muli e «la truppa, che si affidava alle gambe come solo mezzo di trasporto, non era assetata di sangue». Campagne in cui talvolta affioravano tra i soldati pietà e onore, virtù sempre più rare nelle guerre contemporanee. Panciuti, goffi, spesso incapaci, i generali non esitavano a guerreggiare fra di loro. Le feroci lotte intestine venivano, però, puntualmente messe da parte allorché si trattava di difendere gli interessi corporativi della più elevata categoria degli ufficiali. Con una prosa arguta e serrata, Domenico Quirico costruisce una storia complessiva del loro operato, dei meccanismi con cui venivano selezionati, dell'ideologia che li muoveva. Un libro disincantato che narra di un universo a parte, di un clan, di una tribù che ha determinato, in una misura nient'affatto irrilevante, le sorti del nostro paese.
Un filosofo, uno psichiatra e un monaco buddhista – tre voci diverse, tre uomini che di solito si avventurano su strade che all’apparenza non coincidono affatto – si sono riuniti per tentare di rispondere alle domande che ogni essere umano si pone sulla propria condotta di vita, sulla propria maniera di dare un senso all’esistenza. Quali sono le nostre aspirazioni più profonde? Come fare in modo che il nostro mal di vivere non si accresca oltre misura?
Come vivere con gli altri? Come sviluppare la nostra attitudine al bene e all’altruismo? Come diventare più liberi?
Su ognuno di questi argomenti, e su molti altri ancora, i tre hanno discusso delle loro esperienze, dei loro sforzi e delle lezioni apprese lungo la loro ricerca e il loro cammino.
Il risultato è questo straordinario trattato di saggezza a tre voci, un libro limpido e luminoso, fatto di punti di vista differenti che convergono sul compito essenziale dell’esistenza.
Un libro per apprendere il mestiere di vivere.
Il romanzo della vita di Shakespeare: così può essere definita questa monumentale biografia che penetra così a fondo nel mondo e nelle vicende più salienti dell'esistenza del genio inglese da apparire più come l'opera di un scrittore coevo che quella di un biografo del ventunesimo secolo. Shakespeare nacque a Stratford il 23 aprile del 1564 e morì nella stessa piccola città inglese nel 1616. Gli amici di Stratford furono i suoi amici di sempre, le persone che accompagnarono l'intera sua esistenza. Lavorò in teatro, recitando nelle prime sale londinesi e riscrivendo e componendo per una serie di compagnie determinate quali "The Queen's Men", "The Lord Chamberlain's Men" e "The King's Men". Un piccolo mondo, preciso, costante. Peter Ackroyd ci accompagna innanzi tutto nel paesaggio di questo mondo. Percorre le strade di Stratford e Londra, a cavallo tra Cinquecento e Seicento, come se appartenesse pienamente a quel tempo. Descrive l'ambiente teatrale come se fosse uno spettatore elisabettiano e assistesse alle prime rappresentazioni delle tragedie e delle commedie. Scrive dello Shakespeare attore, drammaturgo e poeta, e dunque della sua cerchia di impresari, attori e coautori e della loro "comunanza di sentimenti". Ritesse, insomma, non solo la tela dell'epoca di Shakespeare, ma ne ravviva i colori e le sfumature come se fossero appena dipinti.
Inghilterra, 1913: Sir Randolph Nettleby, baronetto e "gentleman di campagna", ha invitato, come ogni anno sul finire di ottobre, illustri amici e conoscenti nella sua tenuta nell'Oxfordshire per una grande battuta di caccia. È una tradizione che si consuma ormai da tempo immemore, la cui ritualità è controllata da una rigida etichetta: ogni servitore, dal domestico John Siddons al guardiacaccia Glass, conosce il suo ruolo alla perfezione, ogni momento della caccia è rigidamente regolato e tutto deve andare esattamente come è sempre andato. Eppure, sotto la superficie della consuetudine si agitano tensioni che rischiano di diventare incontrollabili: Gilbert Hartlip, fatuo Lord ossessionato dalla propria reputazione di ottimo tiratore, entra presto in competizione con il giovane e talentuoso Sir Lionel Stephens su chi ucciderà più selvaggina; lo stesso Stephens è perdutamente innamorato di Olivia, la moglie del formale e noioso Lord Lilburn, ma non riesce a rivelarle i suoi sentimenti; la frivola Lady Hartlip si distrae dalla sua perenne insoddisfazione intavolando, tra pettegolezzi e commenti salacai, una relazione clandestina con Charles Farquhar, un uomo bello ma, a detta di Sir Randolph, irrimediabilmente ottuso; la nipote diciannovenne del padrone di casa, Cicely, fantastica di abbandonare le dimore di famiglia e seguire il vanaglorioso conte ungherese Tibor Rakassyi tra pianure ricoperte di neve... Introduzione di Julian Fellowes.
Germania, 1936. Nel campo di concentramento di Westhofen, sul lato corto della baracca III, si ergono sette tronchi di platani con delle assi inchiodate ad altezza delle spalle di un uomo. Fahrenberg, il comandante del campo, un pazzo colto da improvvisi accessi d'ira e di crudeltà, ha ordinato quello strano allestimento con un fine preciso: quei tronchi sono le sette croci su cui ha giurato di appendere i sette uomini che hanno osato evadere da Westhofen: Wallau, Füllgrabe, Beutler, Belloni, Aldinger, Pelzer, Heisler, uomini piegati da dozzine di interrogatori, sofferenze e torture. Uomini che hanno scelto la fuga perché persuasi che soltanto la morte possa salvarli o, all'opposto, perché mossi da un insopprimibile istinto di sopravvivenza. Vengono riacciuffati uno dopo l'altro - chi per sorte avversa, chi perché troppo vecchio, chi perché troppo debole, chi perché reso fuori di senno dalla fuga eccetto Georg Heisler. Un'irrefrenabile voglia di vivere, più forte di ogni paura, più forte della fame e della sete e del maledetto pulsare di una mano sanguinante, guida il giovane Heisler e lo tiene miracolosamente lontano dalla settima croce del campo. Proprio quando ogni sogno di libertà sembra spento in lui, insieme alla percezione stessa del pericolo, ecco l'evento inaspettato: alcuni tedeschi decidono di mettere a repentaglio la propria vita, nel "giardino delle bestie" del Terzo Reich, in nome dell'umanità e dell'amicizia.
Inghilterra, 1554: Jane Grey, sovrana per appena nove giorni, si aggira nella dimora di Master Partridge, il carceriere della Torre di Londra. In quell'edificio che si affaccia sulla Tower Green, dove fu giustiziata anni prima Anna Bolena, è tenuta prigioniera insieme alle sue dame di compagnia, dopo essere stata giudicata colpevole di alto tradimento e condannata, poco più che sedicenne, a essere bruciata viva a Tower Hill, o decapitata, secondo il volere della regina Maria. Ha un'unica possibilità per salvarsi, stando almeno alla promessa dell'anziano abate di Westminster: se abiurerà la fede riformata, Maria Tudor, da poco impossessatasi del trono con la ferma intenzione di restaurare nel regno la religione cattolica, le concederà la grazia. Lady Jane, tuttavia, è pronta a riconoscere le sue colpe - aver indossato una corona non sua e avere, così, permesso che il suo cuore e la sua volontà fossero influenzati dalle brame di potere altrui -, ma non può tradire il proprio credo e barattare la vita eterna con quella terrena. Sono anni difficili quelli che precedono il tragico esito della giovane vita di Jane Grey. Tra la fine del regno di Enrico VIII e l'avvento di Elisabetta I le tensioni tra cattolici e protestanti, a lungo sopite, esplodono, e il loro scontro si consuma alla luce dei roghi degli eretici; la Corona è al centro di una fitta rete di intrighi, accordi sotterranei e inaspettati tradimenti...
Pubblicato per la prima volta nel 1969, Io so perché canta l’uccello in gabbia è uno dei libri fondamentali del Novecento, uno tra i migliori mille libri di sempre, secondo larga parte della stampa e delle riviste letterarie americane.
Descrivendo i primi anni della sua straordinaria esistenza, Maya Angelou vi celebra la voglia di vivere, la bellezza del pensiero e la disarmante sensibilità di una bambina e poi di un’adolescente nera nell’America razzista del secolo scorso.
Il libro muove dall’arrivo di Maya, tre anni, e di suo fratello Bailey, quattro anni, a Stamps, nell’Arkansas. Spediti nel profondo Sud a casa della nonna, dopo la separazione dei genitori. È la stagione in cui i luoghi appaiono ancora sotto la luce magica dell’infanzia. Maya vive con la nonna e lo zio nel retro dell’Emporio di cui Momma (così viene chiamata la nonna) è proprietaria da tempo e, tra granaglie per i polli, cherosene, lampadine, stringhe, lozioni, palloncini e semi di fiori, gioca ininterrottamente con Bailey, come in un luna park senza guardiano.
Nell’America degli anni Trenta, tuttavia, eroi e orchi, incanti e orrori accompagnano inevitabilmente l’esistenza di una bambina di colore. Eroi, per Maya, sono i raccoglitori di cotone che scendono dal retro de gli autocarri, si piegano giù fino a terra e, stanchissimi, le dita tagliate, le schiene, le spalle, le braccia, le gambe sfinite, si assembrano nell’Emporio. Orchi sono i «ragazzi» bianchi del Ku Klux Klan che, con gli occhi pieni di odio e le facce di pietra, calano a Stamps e costringono lo zio di Maya e gli altri neri a nascondersi tra gli escrementi del le galline. Orco è Mr. Freeman, l’amico della mamma, un uomo grande, grosso e flaccido che a St. Louis, in Missouri, una sera di primavera l’attira a sé.
Opera magnifica, fatta di urla, suoni, passioni, crudeltà e coraggio senza limiti, Io so perché canta l’uccello in gabbia è la storia di una ragazzina afroamericana capace di lasciarsi alle spalle la sofferenza costruendo con orgoglio e ostinazione la propria vita. Una storia che, a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, conserva tutta la sua bruciante attualità.
"Vanessa e Virginia" è la storia di due donne: la celebre scrittrice Virginia Woolf, autrice di capolavori come "Gita al faro" e "La signora Dalloway", e sua sorella Vanessa Bell, pittrice. Cresciute nel perbenismo vittoriano di una famiglia borghese di Londra, le due sorelle lottarono fin dalla gioventù per liberarsene, seguendo ciascuna la propria vocazione artistica; all'inizio del Novecento, intorno a loro si raccolse il famoso "Circolo di Bloomsbury", un gruppo di intellettuali e artisti che avrebbe influenzato radicalmente la cultura inglese ed europea. Il romanzo, narrato dalla voce di Vanessa e strutturato per capitoli che fotografano diversi momenti nella vita delle due sorelle, ripercorre il loro rapporto, segnato da complicità, gelosia, competizione, reciproci tradimenti e inestirpabile affetto. Dai giochi dell'infanzia ai primi esperimenti creativi, a un'età adulta segnata da matrimoni, amanti e figli, lutti dolorosi, successi e fallimenti - fino, nel caso di Virginia, alla depressione e al suicidio - veniamo trasportati in un mondo complesso e affascinante che Vanessa, in quanto pittrice, racconta con un occhio particolare per le luci, i colori, le immagini, mettendoci a volte davanti a quelli che sembrano veri e propri quadri di vibrante intensità.
È il 1960, l'anno in cui il giovane Kennedy porta via la poltrona al paterno generale di nome Ike, una scimmia vola nello spazio a bordo di un razzo americano e il mondo intero ruota attorno a un asse chiamato Congo. Lo stato dell'Africa centrale, liberato dalla dominazione coloniale belga, precipita nel Grande Gioco della guerra fredda tra le superpotenze, diventando meta di avventurieri, spie e missionari provenienti da ogni parte del globo. Nessuno stupore perciò se in quell'anno del Signore, nella foresta nei pressi di Kilanga, dove gli alberi crescono a dismisura come possenti animali, i viticci strangolano i loro simili nella lotta senza fine per la luce e i serpenti occhieggiano tra i rami, una donna e quattro ragazze bianche procedano come boccioli esangui lungo un sentiero. La donna, gli occhi chiari, l'andatura decisa, i capelli scuri raccolti in un logoro fazzoletto di pizzo, si chiama Orleanna Price, battista del Sud per matrimonio avendo sposato un predicatore, anzi uno di quei predicatori dalla furia così potente da far invidia a quella dell'inferno. Le ragazze che le marciano dietro sono le sue figlie, quattro ragazze strizzate in corpi tesi come archi verso la gloria o la dannazione: le due bionde - Ruth May, piccola e vivace e Rachel, imperiosa e bella come la Rebecca biblica, la vergine al pozzo - le due brune, identiche come gocce d'acqua, Leah che procede a passo spedito, e Adah che trascina i piedi con andatura molle.
George Arthur Rose è un prete mancato. Per oscure ragioni - invereconde calunnie, atroci oltraggi, a suo dire, di giovinetti immaturi - è stato brutalmente espulso dal Saint Andrews, il Pontificio Collegio Scozzese di Roma. Bandito dalla Chiesa Cattolica, come un aspira, una peste, Rose ha reagito abbracciando di proposito la sua nefasta fama: si è messo a posare a genio altero, sottile, dotto, inaccessibile. Lui, che la divina Vocazione spingerebbe a essere attivo e possente, ridotto a languire in bizzarre e stupide pose! George Arthur non sa, tuttavia, che questo freddo giorno di marzo è, in realtà, il giorno del suo trionfo.
Stephen Wraysford è un ventenne inglese, orfano e senza più legami, trasferitosi in Francia per lavorare in un’industria tessile. Isabelle è una ragazza irreprensibile, che rispetta, con rassegnazione, i doveri coniugali di un matrimonio combinato. Quando si incontrano, ad Amiens, nel 1910, i due vengono travolti da una passione bruciante che non possono ignorare. Ma quando Isabelle scopre di essere incinta, la loro relazione s’interrompe bruscamente. Entrambi torneranno alla vita di tutti i giorni, ma la cicatrice di quell’amore segnerà per sempre le loro esistenze. Pochi anni dopo, la Grande Guerra sconvolge il continente. Nel 1917 Stephen è di nuovo in Francia, a lottare per la vita nel corso dei conflitti in cui si ritroverà a combattere tra le fila dell’esercito inglese, nel mezzo delle carneficine a cui dovrà assistere. Sopravvissuto, e di nuovo sui luoghi della passione, ritroverà Isabelle, profondamente segnata, nel corpo e nello spirito, dalle atrocità del conflitto; ma, per l’indecifrabile alchimia dei sentimenti, ne sposerà la sorella, Jeanne.
«Ambizioso, oltraggioso, struggente e straordinariamente coinvolgente. Il canto del cielo non è semplicemente un romanzo perfetto. È grandioso».
Simon Schama, New Yorker
«Uno dei libri più belli degli ultimi quarant’anni».
Brian Masters, Mail on Sunday
«Questo romanzo è talmente intenso, che, appena finito di leggerlo, ho dovuto ricominciare dall’inizio».
Andrew James, Sunday Express
«Letteratura al suo meglio: un libro con il potere di rivelare l’inimmaginabile, il potere di cambiare la nostra vita. Da leggere assolutamente».
Nigel Watts, Time Out
È il 1644 in Inghilterra. La guerra civile tra i seguaci del re Carlo I e i sostenitori del Parlamento infuria, e divide contee, contrade e famiglie, distruggendo antichi patti e legami secolari. Judith Marsh, figlia di Lord William, nobile fanciulla innamorata e incinta di John Mainwaring, è costretta ad abbandonare il suo illustre casato e a rifugiarsi in un villaggio di umili contadini. Per Lord William, schierato anima e corpo dalla parte del re, una figlia che reca in grembo un Mainwaring, un discendente del conte di Rosswood che ha osato abbracciare la causa dei ribelli del Parlamento, sarebbe, infatti, un autentico disonore. Privata dei suoi averi, del suo rango e persino del suo nome, lontana da John, perso da qualche parte nella guerra contro i realisti, in una misera stanza umida della casa dei paesani cui si è presentata come Judith St. Clare, la figlia dei Marsh, antichissima famiglia di origine normanna, partorisce la sua creatura. Judith fa appena in tempo a udire il pianto della sua bambina e a decidere di chiamarla Amber, che, tra bacinelle di peltro, vasetti di unguenti e cordicelle scure, esala il suo ultimo respiro. Amber St. Clare cresce così da sola, in uno sperduto villaggio di contadini. Sarebbe probabilmente destinata a vivere lì il resto dei suoi giorni se, a diciassette anni, non emanasse dalla sua figura una rigogliosa e aristocratica esuberanza e una bellezza senza pari. Postfazione di Barbara Taylor Bradford.